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La demoiselle d’honneur

Giunto al suo cinquantunesimo film il vecchio Chabrol non demorde, non rinuncia agli argomenti che hanno caratterizzato gran parte della sua produzione, fin dai tempi di
A doppia mandata
per arrivare al bellissimo

Il fiore del male
dell’anno scorso.

Così ancora una volta il centro della sua osservazione è la provincia francese con la sua borghesia, piccola o grande, dentro cui si annidano conflitti, pericolose inclinazioni, celate mostruosità e scoppi di follia. E ancora una volta il canovaccio è quello del giallo, sulla falsariga del suo amato Hitchcock, di cui Chabrol da sempre riprende la tecnica di una suspense che non è tanto dell’enigma e del suo svelamento, quanto delle impalpabili indicibili sensazioni di un disastro immanente. Come già ne
Il buio della mente,
anche per
La damigella d’onore,
il regista ricorre al romanzo della giallista Ruth Rendell, che si muove un po’ sulla strada di Patricia Highsmith e che alcuni giornalisti considerano una grande quando invece è soltanto un’abile artigiana, attratta dalla pazzie domestiche.

Quanto basta però a Chabrol per tessere la sua maglia descrittiva sulla trama adusata della scrittrice, con un’eleganza e una linearità che il tempo ha perfino asciugato. Il film racconta qualcosa che la lettori e spettatori conoscono già, perché il tema, da Gide
(Le cave du Vatican)
alla Highsmith
(Sconosciuti in treno)
ad Alfred Hitchcock
(Nodo alla gola)
di tanto in tanto si ripresenta, più o meno rielaborato: quello del delitto gratuito, commesso per rendere indissolubile ogni legame e sentirsi al di sopra del bene e del male. Qui viene commesso da una folle ed esaltata ragazza di cui si è profondamente invaghito un giovane dabbene, timido e introverso oltre che probo capofamiglia.

Il film comincia col descrivere lui e la sua famiglia: la madre parrucchiera e due sorelle, la maggiore in procinto di sposarsi e la minore avviata alla droga. Ed è proprio al banchetto di nozze che il giovane conosce la bizzarra damigella d’onore di cui cade subito preda: è la cugina dello sposo e somiglia in modo impressionante a un’erma che la famiglia aveva in giardino.

Ora però quella testa di pietra il protagonista l’ha nascosta in camera, la tiene sul tavolo quando lavora e se la porta perfino a letto. Senta (così si chiama la folle con riferimento wagneriano, che avrebbe già dovuto mettere in guardia il suo spasimante) vive dentro un discorso di follia, in cui realtà e immaginazione si confondono e confondono l’amico, alla sua prima, si intuisce, esperienza sessuale e sentimentale e inadatto per struttura psichica a reggere una tale carica di esaltazione paranoide.

Qui mi fermo, per non svelare una trama che, come tutti i thriller che si rispettano, ha le sue sorprese, anche se in Chabrol ha maggior peso l’inespresso, il non detto, rispetto a quello che realmente accade; o in altre parole: quei grumi di demenza affioranti da ogni personaggio sono più sottilmente angoscianti che non la follia patente di Senta.

Con una tecnica, che deriva da Hitchcock, Chabrol investe la sua provincia di un’ironia che non salva nessuno e carica la tensione con piani-sequenza che si soffermano su inquietanti quanto apparentemente innocui particolari. Inquietanti perché suggeriscono, alludono e non risolvono. Così come non risolve il regista, che si limita a chiudere la feroce e bellissima messa in scena con un finale di comodo, a dimostrazione di quanto poco gli interessi concludere, attratto com’è da sempre dai risvolti oscuri della psicologia «comune» e dai riti sociali di sopravvivenza.
(piero gelli)