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Caruso, zero in condotta

Francesco Nuti è stato fino a oggi associato, istintivamente e peggiorativamente, a un altro interprete della comicità toscana, Roberto Benigni. L’uscita quasi contemporanea di
Caruso, zero in condotta
e di
La stanza del figlio
chiarisce l’equivoco: il vero gemello di Nuti – se vogliamo, il suo Abele – non è Benigni, bensì Nanni Moretti. Il fatto che i due si ripropongano, oggi, con lavori dalle somiglianze impressionanti (sia pure uno sul versante tragico e l’altro su quello della commedia) può voler dire molte cose. La più sensata è che il film di Moretti non è il capolavoro che tanti invocano e quello di Nuti non è la porcheriuola che tanti suppongono.

Da tempo, del resto, Nuti alterna prove di insopportabile narcisismo, la cui unica giustificazione sono le mossette e il patetico gigionismo dell’attore-autore, ad altre in cui si limita a mettersi al servizio, quasi a farsi attraversare da commedie amare e dotate di un sorprendente bagaglio di cattiveria (
Io, Chiara e lo Scuro, Son contento, Donne con le gonne
). Ora, con la fida Carla Giulia Casalini e il recente acquisto Ugo Chiti, dopo averci regalato due dei più brutti film della storia del cinema (
Il signor Quindicipalle
e
Io amo Andrea
), Nuti si riscatta almeno parzialmente con questa pellicola di ambizioni superiori, in cui racconta di un vedovo psicanalista – e adesso per favore, dopo Muccino e Moretti, basta con questi dannati psicanalisti! – che scopre la doppia vita della figlioletta, parte di una inventiva baby-gang dedita al furto semplice e intenzionata a una precoce carriera. È vero, la trama lascia un po’ a desiderare, con quella specie di thriller raffazzonato e pretestuoso che fa da filo conduttore prima di risolversi nel solito «volemose bene». Però il rapporto padre-figlia è condotto con sensibilità, intelligenza e – ciò che più sorprende – misura. E tutte le oscillazioni fra la complicità con i comportamenti criminali della ragazzina – dettata da un certo rispecchiamento con la propria cleptomania infantile – e le esigenze repressive connesse al ruolo di padre sono rese con ironia e buon senso. Infine la recitazione (perfino quella di Nuti) spicca al di sopra della norma degli standard televisivi, che potevano costituire un modello pericoloso: segno di una regia accorta. Insomma, la vena popolare, ma percorsa da intuizioni dissonanti (a partire dal riferimento a Jean Vigo che non sta solo nel titolo, o da una suora-Platinette degna di South Park) di un Nuti che tiene Nuti al guinzaglio, ci ha convinto.
(giacomo manzoli)