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Uzak

Malinconia zen. In una Istanbul silente, avvolta nella neve che ne imbianca i tetti, i moli e gli acuminati minareti, un fotografo in crisi di identità idee e amori riceve la visita di un giovane lontano parente. Licenziato dalla fabbrica che dava lavoro a tutto il paese, il giovane ha deciso, senza troppa convinzione, di trasferirsi nella capitale per cercare un ingaggio come mozzo su un bastimento. Ma la convivenza dopo un po’ si guasta e le due esistenze, inconciliabili e distanti, si abbandonano senza una parola.
Un film piccino piccino, che stupì persino la giuria del Festival di Cannes 2003, presieduta da Patrice Chéreau, aggiudicandosi il Gran premio della giuria e quello per il miglior attore (ex aequo a Muzaffer Özdemir e Mehmet Emin Toprak; il secondo, cugino del regista, perì in un incidente pochi mesi prima della presentazione a Cannes). La cifra del regista, Nuri Bilge Ceylan, che ha curato pressoché tutti gli aspetti del film, utilizzando un budget risicato, è quella della sottrazione. I lunghi silenzi, le inquadrature accurate ma statiche ricordano il cinema dei maestri giapponesi. Un giardinetto zen con al centro le cupole della Moschea Blu.
Per la serie «l’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza», il miracoloso Uzak racconta una storia che dire minimale è poco. Dal punto di vista dell’azione, il clou è rappresentato dalla scena della cattura del topolino che aveva fatto il nido in casa del protagonista… Per il resto, dialoghi scarni e involuti, lunghi silenzi e inquadrature fisse, una fotografia accurata e poetica su una città, Istanbul, colta con amore non compiaciuto. Ma è soprattutto una riflessione sulla distanza che divide le persone quella che Ceylan, al suo terzo lungometraggio (Kasaba, The small town è del 1997; Mayis Sikintisi, Clouds of May del ’99) ci trasmette. Un cinema di rigore estremo, asciutto ma vero. Malinconia zen.
(enzo fragassi)