The Take
Tomar
è un verbo castigliano che equivale al nostro «prendere». E se il sostantivo non ricordasse un formaggino – la
toma
– sarebbe stato il titolo più azzeccato per questo documentario giocato sul filo dell’emozione che ha riportato agli onori delle cronache Naomi Klein, diventata
in the meantime
signora Lewis, avendo sposato Avi, cineasta, canadese e militante come lei, al suo primo lungometraggio.
La Toma,
in luogo di
The Take,
avrebbe infatti meglio rappresentato la duplice accezione di «prendere» nel senso di «occupare», ma anche di «appropriarsi, impossessarsi, fare proprio» ciò che in realtà si è sempre avvertito come qualcosa di personale: la fabbrica, il posto di lavoro, il luogo ove condividere coi compagni la fatica ma anche la gioia del salario.
Occupare, resistere, produrre
diventano i nuovi imperativi morali dei lavoratori della Forja San Martin.
L’autrice del best seller internazionale
No Logo,
considerato uno dei testi fondamentali del Movimento No e New Global – pubblicato in Italia da
Baldini Castoldi Dalai editore
– torna dunque sui temi cari alla sua ricerca, scegliendo di fissare nella memoria collettiva la reazione della classe operaia in Argentina, all’indomani del
default
che determinò la bancarotta del Paese. Di fronte alla fuga dei capitali e dei capitalisti, innanzi al liquefarsi delle istituzioni, screditate da decenni di malgoverno e corruzione seguiti al tunnel della dittatura, gli argentini regirono in modi assai differenti. E proprio questa «creatività nella lotta» è l’elemento che ha determinato Lewis & Klein a recarsi colà. Invece – per esempio – di girare a New York, colpita solo tre mesi prima (siamo nel dicembre 2001) dall’attacco alle Torri, o a Genova, dove nel luglio si era svolta la terribile (per la morte di Carlo Giuliani) ma per altri versi esaltante manifestazione del Movimento cui Klein appartiene.
The Take
decide di puntare sul movimento dei lavoratori disoccupati organizzati, piuttosto che sul fenomeno più «coreografico» dei
cacerolazos,
distinti padri di famiglia e infagottate
mujeres
identiche alle nostre mammone (ci credo, in Argentina l’immigrazione italiana è stata fortissima) che si ritrovarono per settimane e mesi di fronte ai simboli del potere istituzionale a far caciara con pentole, stoviglie, coperchi e quanto di più rumoroso possedessero. Nel mentre – siamo sempre tra la fine del 2001 e i primi mesi del 2002 – le prime fabbriche, tessili, ceramiche, siderurgiche (a volte con nomi italiani, come le ceramiche Zanon) cominciarono a essere occupate dai lavoratori, lasciati a casa senza stipendio né prospettive, i conti correnti bancari bloccati dal Governo per tentare di arginare l’emorragia finanziaria. Viene seguita da presso l’odissea della Forja San Martin, sullo sfondo delle elezioni presidenziali che condussero al potere l’attuale Presidente Nestor Kirchner, fino alla vittoria: il Comune di Buenos Aires, con uno speciale provvedimento, consentirà ai lavoratori di riprendere legalmente la produzione.
The Take
ha il pregio di aprire una finestra su uno dei molti modi oggi al mondo di praticare forme economiche e di vita «altre» rispetto a quelle dominanti. Nella presa delle fabbriche – circa duecento in tutta l’Argentina, alcune ancora oggi floridamente in mano alle cooperative costituitesi durante la crisi – si ritrovano accenti epici che rimandano a stagioni del passato, con la differenza che qui il propellente ideologico è a basso numero di ottani, mentre lo spettro della miseria e della fame sono i veri carburanti. Dal punto di vista strettamente filmico,
The Take
elargisce emozioni a piene mani. Emozioni che non impiegano molto a conquistare il cuore dello spettatore. Questo è però anche il limite del documentario, manicheo nel rappresentare la turpitudine del potere, contrapposta alla purezza delle masse. Non che Menem e soci non meritassero di essere effigiati brutalmente per quel che sono. Ma qualche sfumatura in più, di un Paese quanto mai innervato di contraddizioni, che pure oggi presenta evidenti segni di ripresa economica, tanto che alcuni gridano persino al miracolo, avrebbe giovato a una rappresentazione oggettiva. Che invece si è preferito sacrificare sull’altare della «fedeltà alla linea». Un po’ troppo lungo anche il lasso di tempo trascorso tra le vicende narrate e l’oggi. Ma questo è un dato di fatto, non una colpa ascrivibile al film.
(enzo fragassi)