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Storie

Un dedalo di vicende – dal valore che si vorrebbe altamente simbolico – si intrecciano, attraverso l’uso di articolati piani-sequenza, alla ricerca di un «codice sconosciuto» (titolo originale della pellicola). Michael Haneke è un regista che pensa troppo. E verrebbe voglia di aggiungere: troppo e male. Cineasta profondamente normativo, diffida dell’immagine che – come si evince dai precedenti
Benny’s Video e Funny Games
– ritiene fonte di (quasi) ogni male.
Funny Games
, a causa della sua crudeltà e violenza, è stato frainteso per un polemico saggio di messinscena, ma il bluff non è durato molto. Storie rivela, in formato «cinema di qualità all’europea», tutta la pochezza di un autore incapace di fermare e imporre il proprio sguardo sul reale. Infatti ciò che rivela tutta la filmografia di Haneke è la sua distanza – siderale – dal mondo. In
Storie
, per la verità, sembra quasi tentare di svincolarsi dal suo metodo abituale, in cerca di uno smarrimento che potrebbe restituirlo a una condizione di soggettività filmante. Ma il suo aprirsi al caso, di matrice profondamente (e immobilmente) letteraria, rivela purtroppo le articolazioni artritiche del suo pensiero, incapace persino di alimentare il proprio progetto. Il surplus di morale – che tuttavia non si trasforma mai in moralità cinematografica – si trasforma in un’incapacità di vedere, sottolineata ulteriormente dall’evidenza del virtuosistico e inutile dispositivo di riproduzione utilizzato.
(giona a. nazzaro)