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Robots

Il giovane Rodney Copperbottom (doppiato da Dj Francesco) vive la tranquilla vita di un robot adolescente in un paesino di provincia. Poiché proviene da una famiglia povera, in cui l’unico stipendio è quello del padre che lavora come lavapiatti in un ristorante, Rodney decide di andare a cercare fortuna nella grande città di Robot City; il ragazzo infatti sogna di diventare un inventore al servizio della più grande industria della città, quella che fa capo al tondeggiante Bigweld. Durante la sua permanenza nella grande metropoli, Rodney incontrerà nuovi amici: lo sgarruppato gruppo dei Rusties, robot emarginati che vivono nei bassifondi, e soprattutto la dolce, dinamica e brillante Cappy, insieme alla quale conoscerà per la prima volta il vero amore. Tutti insieme combatteranno il diabolico piano ordito dal malvagio Ratchet, che vuole sostituirsi a Bigweld e diventare il robot più ricco del mondo.
Frutto del lavoro del team creativo che ha dato i natali al gradevole L’era glaciale, Robots racconta una tipica storia di formazione, attingendo a piene mani dagli stereotipi del genere: le modeste origini del protagonista, il viaggio nella grande città, la conquista dell’amore e dell’amicizia e infine il ritorno a casa da eroe. 
Sopra questa struttura di base non certo originalissima si innesta tutta la vicenda, che ha il suo punto di forza nella caratterizzazione estetica dei personaggi e delle ambientazioni, opera del grande illustratore William Joyce. In effetti, il mondo dei robot è veramente una gioia per gli occhi dello spettatore, azzeccatissimi i suoi colori vivaci e le sue forme bizzarre; Robot City è particolarmente affascinante, con le sue architetture sì slanciate e futuristiche ma allo stesso tempo piene di influenze retrò, che vanno dall’art deco al design anni ’50.
Non meno belli i personaggi: solo il protagonista non è particolarmente caratterizzato, probabilmente una strategia per aiutare il processo di identificazione da parte dello spettatore, mentre gli altri character sono piuttosto ben riusciti; fra i migliori sicuramente l’istrionico Fender, automa rosso che cade letteralmente a pezzi nei momenti meno opportuni, e la generosa zia Fanny, dotata di un enorme sederone, che spesso diventa il centro di diverse gag di basso livello (indovinate un po’? Esatto, scoreggia rumorosamente…) che però strappano più di una risata.
Se l’impatto estetico è dunque sicuramente più che positivo, è necessario dire che la storia e la sceneggiatura a volte non sono all’altezza, con passaggi e battute spesso scontati.
Merita invece un applauso la colonna sonora, che si avvale di pezzi rubati dai repertori di artisti arcinoti: Tom Waits e James Brown su tutti, ma anche Fatboy Slim, Earth, Wind &Fire e Britney Spears (!).
Meglio stendere un velo pietoso, invece, sulla scelta di affidare al cantante-ex-naufrago-figlio-di-quello-dei-Pooh Dj Francesco la voce del protagonista. La scelta di doppiatori «famosi» dovrebbe essere fatta con più oculatezza (come hanno fatto i produttori di Shark Tale,  per esempio…), e non costituire un semplice specchietto per le allodole destinato ad attirare il grande pubblico. Soprattutto in un paese come il nostro, che vanta una tradizione di grandi doppiatori. (michele serra)