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Quo vadis, baby?

Dopo aver visto
Quo vadis, baby
? La domanda che sorge immediata è che cosa abbia spinto il regista, con la sua cifra «salvatorista» così immediatamente identificabile, a girare un film così poco Salvatores. Non è una domanda retorica o inutile o sciocca, bensì un’interrogativo che svela una sorpresa: Salvatores sa uscire da se stesso e dai suoi temi, sa girare un film duro, serrato, senza sole, senza campi lunghi, senza pause; un film aspro, espressionista, dai toni sgradevoli, antinaturalisti. Un film dunque molto interessante; ma non per questo del tutto convincente.
 
Dunque: Giorgia Cantini (un’efficace Angela Baraldi) conduce col padre, chiamato il capitano, una società di investigazione privata; un lavoro ingrato che la porta spesso in situazioni limite, a contatti sgradevoli: i clienti, che la pagano per aver certezza sui loro sospetti, spesso non gradiscono la verità. Un giorno riceve da Roma una serie di cassette Vhs; appartengono alla sorella minore Ada (Claudia Zanella) che, andatasene sedici anni prima per fare l’attrice, si era poi suicidata, dopo il fallimento professionale e l’incontro con la droga. In queste cassette Ada si riprende e si confessa in un continuo provocatorio outing, dedicato non tanto alla sorella maggiore quanto forse al padre (un bravissimo Luigi Maria Burruano).
 
Naturalmente la visione di questo materiale è traumatica per Giorgia, per il ridestarsi di un passato malamente accantonato, per l’emergere di inquietanti segni e misteri su cui lei indagherà. Non conviene andare oltre per non svelare i colpi di scena che si susseguono come conviene a un thriller che si rispetti; anche se per la debolezza della sceneggiatura ricavata da un presumibilmente debole romanzo, le rivelazioni sopraggiungono scontate e già intuite.
 
La forza del film è in una scenografia coatta, congestionata, acrilica, violenta, fortemente simbolica; nel sapiente incrociarsi dei vari piani, quello del presente, quello del passato recuperato tramite le cassette, e infine l’altro passato – dell’infanzia delle due sorelline, macchiata da una terribile tragedia – che emerge per bagliori di memoria, per rapidi flash del rimosso. 
 

Salvatores ci immerge in una Bologna sempre semideserta, cupa, asfittica, sempre sotto la pioggia; chiude la sua protagonista in accesi primi piani, mentre lei beve o fuma in continuazione, accendendosi la sigaretta con un congegno a benzina che usava negli anni Cinquanta. In verità, la pioggia, la birra, l’accendino arcaico, i luoghi deputati dell’investigatrice, come la baracca dove lei va a prendere panini indigesti, sono tutti manierismi manierati per creare il personaggio topico, sono la rivelazione di una scarsa ispirazione, basata su modelli letterati secondari. 
 Un esempio: una delle cassette contiene la registrazione de
Il mostro di Dusseldorf
di Fritz Lang. Giorgia che non va mai al cinema, che ha visto soltanto
Biancaneve
di Disney, lo guarda tutto con attenzione. Lo spettatore avvertito sa che quando un regista cita un film celebre, mette in campo quella che oggi si definisce intertestualità, con la figura retorica dell’allusione e dell’emulazione. Ma in questo contesto, Lang è una citazione fuori luogo, che non rinvia a niente, una citazione gratuita. Come altrettanto gratuita è l’altra citazione, che dà il titolo al film, da
U
ltimo tango a Parigi
.
 
Dal punto di vista della logica narrativa, invece, il finale nasconde un clamoroso errore (che naturalmente non è bene citare, per non svelare il plot). Un film, in ultima analisi, lastricato di buone idee cinematografiche e rovinato sia da un soggetto (quello di Grazia Verasani) pieno di luoghi comuni, sia dalla fallace sceneggiatura ricavatane.
(piero gelli)