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Lontano in fondo agli occhi

1954, in un paesino della provincia napoletana. È il solito Natale da trascorrere tra riti religiosi e umili pranzi familiari. L’undicenne Bambino nutre un amore segreto per la cameriera quindicenne Rafilina, che ha una relazione clandestina e tormentata col guappo del paese, Carmine Russo. Il cinquantatreenne Giuseppe Rocca (per anni sceneggiatore e docente all’Accademia d’Arte drammatica) cala il suo maturo esordio alla regia nel mondo di ieri che non esiste più, ma anche nei territori del cinema popolare «di una volta», fatto di guappi e fanciulle in fiore, sentimenti peccaminosi e sensi di colpa ispirati da un onnipresente cattolicesimo. Nonostante alcune affinità tematiche, il film di Rocca è molto distante dalla Malèna tornatoriana, poiché oppone viscere a superficie, sgradevolezze a levigatezza, coscienza della ricchezza di un passato forse perduto per sempre a puro «effetto-nostalgia» da esportazione. E tutto questo grazie a uno sguardo sinceramente antropologico ma, al tempo stesso, capace di ben padroneggiare tempi e modi della messa in scena cinematografica, come in un anti-musical tragico e buffo.
Lontano in fondo agli occhi
pesca nella vita e nel cinema e, perciò, ha due anime (mai contrapposte): nella prima parte, ostica e lentissima, non accade nulla e vi si dispiega la quotidianità di un’umile famiglia della provincia napoletana degli anni Cinquanta; nella seconda, invece, il desiderio del ragazzino acquista consistenza, fino a diventare autentico delirio e a svolgersi in quello che immaginiamo essere il suo film personale, febbricitante e visionario. Ottime – e funzionali al disegno del regista – le musiche di Pasquale Scialò, che a sua volta unisce con sapienza registro colto e popolare. Un po’ teatrali, ma efficaci, le performance degli interpreti, soprattutto del folto gruppo di attrici di varie generazioni (da Nuccia Fumo, Marina Confalone e Antonella Stefanucci fino alla sedicenne Mariagrazia Galasso).
(diego del pozzo)