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L’ignoto spazio profondo

Le immagini inedite dell’equipaggio dello Space Shuttle STS-43 in orbita attorno alla Terra provenienti dagli archivi della Nasa – alle quali mai alcun regista aveva potuto attingere – e le riprese subacquee effettuate da Henry Kaiser sotto la calotta gelata. A unirle in un’originale
docu-science fiction,
il racconto di un alieno, interpretato dall’ottimo Brad Dourif
(Qualcuno volò sul nido del cuculo, I cancelli del cielo, Mississippi Burning,
con lo stesso regista, nel 1991,
Grido di pietra),
che racconta un intricato viaggio ipotetico nello spazio. La razza umana, minacciata da un’epidemia scatenata dai batteri alieni giunti sulla Terra al seguito del famoso «Ufo di Roswell», decide di inviare una navetta spaziale alla ricerca di un pianeta da colonizzare. L’alieno, però, sa che è un’impresa disperata. Lo sa perché proviene dalla lontanissima galassia di Andromeda, che il suo popolo dovette abbandonare per il deteriorarsi delle condizioni di vita. Per approdare, dopo un lunghissimo girovagare, sulla Terra. Ciò accadeva centinaia di anni fa. Gli alieni si mischiarono senza problemi agli umani, cercando anzi di competere con loro nella costruzione di una società ricca e consumistica. Ma fallirono miseramente. Il viaggio degli astronauti intanto prosegue e, grazie alla teoria dei «tunnel spazio-temporali» (spiegata da veri matematici della Nasa), approdano su un pianeta dove il cielo è ghiacciato, mentre la superficie è composta da elio allo stato liquido. Dopo un’accurata ispezione, gli astronauti concludono che lì forse sarà possibile impiantare una stazione e dunque fornire un’alternativa al genere umano. Il pianeta si chiama Wild Blue Yonder, ed è lo stesso dal quale il popolo degli alieni era fuggito. Al loro ritorno sulla Terra, gli astronauti, che pensavano di essersi assentati solo per pochi anni, scoprono invece che sono trascorsi ben otto secoli, durante i quali il nostro pianeta si è ridotto a una landa desolata.

Diavolo di un Herzog! Non solo riesce a intrufolarsi negli archivi – fino a quel momento sigillati – della Nasa (che, da vero paraculo, ringrazia per la «poesia»), ma confeziona uno strano oggetto filmico, fatto di pochi elementi eterogenei, legati però da una fantasia inesauribile e da una cifra stilistica che, potrà piacere o non piacere affatto, certo non lascia indifferenti. A noi è piaciuta l’idea dell’alieno sfigato che vive ai margini della società, in una discarica, oppresso dal senso di colpa e dal rimorso per non essere stato in grado di avvisare per tempo il genere umano del disastro ecologico definitivo verso il quale si è imbecillemente avviato. L’abbiamo trovata persino comica, guarda te! E se le ipnotiche e interminabili sequenze sottomarine accompagnate dagli stridori dodecafonici del violoncellista Ernst Reijseger, tra alghe avvizzite e qualche sparuta medusa immersa nella semioscurità, possono mettere obiettivamente a dura prova anche la pazienza del cinefilo più incallito, di contro quelle degli astronauti che fluttuano senza peso nella pancia dello Shuttle, mentre i
tenores
di Orosei intonano le loro arcane melodie, rimandano direttamente
all’Odissea
di Kubrick E scusate se è poco. Il film ha ricevuto il premio Fipresci alla Mostra del cinema di Venezia 2006, suscitando – com’era facilmente prevedibile – pareri contrastanti.
(enzo fragassi)