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Il mestiere delle armi

Joanni de’ Medici, uomo d’armi, nipote di papa Clemente VII, è il capitano dell’armata pontificia nella campagna contro la discesa dei Lanizichenecchi di Carlo V, imperatore degli Alemanni. Uomo di valore, ultimo eroe di un’epoca morente, Joannis viene ferito a morte durante un’imboscata dal colpo da un’arma da fuoco sparato a distanza. Morirà quindi sul lettino da campo come un vero eroe, come l’ultimo soldato.

Ermanno Olmi condivide insieme a una manciata di registi che hanno illuminato con i loro film la recente stagione cinematografica – Wong Kar-Way, Ang Lee, Oshima – un’intuizione di fondo importante: tutti hanno collocato le loro storie, che siano fantastiche, melodrammatiche, esotiche o cavalleresche in un periodo storico di passaggio che ha chiuso con un mondo e un’epoca e ne ha aperto un altro. E tutti hanno cercato di sottolineare, tra le pieghe del film, quanto questo passaggio abbia comportato in termini di perdita, piuttosto che in termini di conquista. Rispetto agli esempi citati, però, Olmi non gode della stessa felicità di mano. Siamo in un’epoca remota ma fondamentale, e l’avvento dell’era moderna è misurato sulla guerra, con il superamento del codice d’onore che presiedeva agli scontri all’arma bianca, uomo contro uomo, e l’avvento dell’arma da fuoco a distanza che insieme gli assetti e le strategie muta anche la «dignità» di una guerra umana.

Il Giovanni dalle Bande Nere, viene disegnato come l’ultimo eroe, l’ultimo soldato, ardente, coraggioso, amato dalle donne, corteggiato da tutti i principi per il suo valore in battaglia nello scontro frontale, ma anche il primo simbolicamente a essere sacrificato dall’avvento della «modernità» che qui coincide con l’innovazione tecnologica.

La lezione olmiana è forse fin troppo chiara: sarà per questo che il regista bergamasco, una volta assodata la bontà dello spunto e della trattazione, si dedica all’allestimento di una messa in scena sì rigorosa ma eccessivamente attenta agli aspetti della messa in quadro delle scene. E finisce con il dimostrarsi più interessato ai dettami dell’estetica pittorica rinascimentale che a quelli della vicenda o delle ragioni del suo imporsi. Ci sono stati fior di registi che hanno goduto dello sguardo pittorico per «decorare» i loro film, ma in loro il senso dell’operazione era ben presente e funzionava da àncora, da zavorra alla volatilità dell’estetizzazione. Qui Olmi cede spesso, troppo spesso, al gusto della ricostruzione, al vezzo pittorico dimentico che il cinema non è solo inquadratura e luce.
(dario zonta)