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Un silenzio particolare

Stefano Rulli è uno sceneggiatore con ottime referenze; basti ricordare, trent’anni fa,
Matti da slegare
di Marco Bellocchio e, recentemente,

Le chiavi di casa,
di Gianni Amelio, per capire quanto questo suo film,
Un silenzio particolare,
nutrito di dolore familiare, sia collegato a una fitta rete di esperienze, che vanno oltre il caso personale: la frequentazione di Franco Basaglia, sul cui metodo psichiatrico si basava il documentario di Bellocchio, precede la nascita del figlio Matteo, protagonista inconsapevole di questo inconsapevole capolavoro. Spiegherò più sotto che cosa voglio dire con tale aggettivo ripetuto.

Matteo è il figlio di due intellettuali, lui è appunto Stefano Rulli, lei è la scrittrice Clara Sereni. È autistico, e con il suo sguardo bellissimo, intenso, ma come perso dietro le ombre di un invalicabile muro, comunica allo spettatore quel senso accorato, sbigottito e misterioso dell’esclusione, che è comune a chi s’imbatte casualmente nella malattia mentale. Rulli, servendosi di tecnici amici di famiglia ha girato in digitale (quindi riducendo al minimo il set di lavoro) questo documento su suo figlio, ritraendolo in vari momenti, solo, in colloquio con lui, con la madre, con gli amici di casa.

Ma non è soltanto Matteo a occupare la scena, perché i due genitori hanno creato una struttura turistica, estiva, servendosi di un loro casale sui monti dell’Umbria, dove ospitano molti altri giovani affetti da handicap mentale (spero che la terminologia sia giusta); così alle riprese del figlio si alternano quelle degli ospiti, i loro momenti lieti, come un compleanno o le nozze, o tristi come la morte di un’amica; insomma la vita con la sua alternanza di piaceri e di dolori, normale come la nostra normalità.

Matteo all’inizio sembra mal tollerare l’intrusione nella sua vita di questi altri, forse perché gli sembra che distolgano l’attenzione del padre e della madre. Ma poi si allacciano rapporti d’amicizia, si creano legami che rompono il silenzio, che creano una propria comunicazione. Rulli confessa che all’inizio non intendeva fare un film, per lo meno non da far vedere in sale pubbliche, poi ha girato cinquanta ore di pellicola, da cui ha montato selezionando una storia-documento di 75 minuti. Ecco perché prima parlavo di inconsapevolezza: da parte di Matteo, che non si rendeva conto di recitare un ruolo, ma anche del padre, che non intendeva raccontare, perché raccontare è sempre inventare.

Il risultato è un’opera che non ha bisogno di categorie estetiche, perché ogni termine estetico sarebbe inadeguato e forse superfluo di fronte alla sua autenticità. Un’autenticità che ti colpisce al cuore, come le belle facce, intelligenti e pulite, di Stefano Rulli e Clara Sereni, che davvero ci consolano di tanta brutta gente oggi alla ribalta della politica e dello spettacolo, di destra, di centro, ma anche di sinistra.
(piero gelli)