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The Red Shoes

Non v’è dubbio che, dietro la moda dei film asiatici, e specificamente coreani, sprovveduti distributori o chi per loro si precipitino a importare qualsiasi prodotto confezionato laggiù da giovane regista emergente.

Oil caso di Kim Yong-gyun e del suo The Red Shoes, variante contemporanea coreana della fiaba di Andersen
Le scarpette rosse.
In realtà Andersen è solo un facile pretesto per imbastire l’ennesimo horror di serie B, o anche C, rivestendolo di freudismi d’accatto. C’è tutta la psicopatologia letteraria in uso per questo genere di film dai tempi dell’espressionismo tedesco, giù giù per li rami, da Hitchckock a Bava: dal doppelganger al perturbante con gli occhi cavati dalle orbite. Le referenze scontate non servono a nobilitare un filmetto che non ha capo né coda e scopre le carte fin dalle prime sequenze, risultando da subito noiosisssimo.

Raccontarlo è quasi impossibile: una giovane e bella oculista lascia il marito che la tradisce e va a vivere con la figlia di sei anni in un appartamento periferico e malridotto dove non abita quasi nessuno, eccetto una vecchia nana che promette dispiaceri alla nuova inquilina. Quest’ultima ha la mania delle scarpe, a tal punto che, trovate in metropolitana un paio di scarpe rosse nuove, se le porta a casa. E queste diventano subito motivo di litigio tra lei e sua figlia, che studia danza e le vuole per sé, anche se sono fuori misura. La donna si accorgerà che, con le scarpette rosse, la piccola (che è una schiappa a danzare ed è derisa dalle altre piccine) diventa bravissima. Le scarpe sono maledette, perché mezzo secolo prima erano appartenute a una celebre ballerina ed erano state l’occasione per un orrendo crimine. Chi se ne impossessa, o le ruba, morirà con le gambe tagliate all’altezza delle caviglie e con gli occhi cavati dalle orbite. Così succede all’amica della protagonista, che venuta a trovarla nello squallido appartamento, le indossa, esce e viene straziata nel modo che si è detto. Ed era già successo all’inizio del film, a mo’ di proemio, tra due ragazzine che scoprono le maledette scarpette nella metropolitana e se le contendono.

Nel film la storia è assai più contorta e disseminata di orrorifici colpi di scena, che per il loro accumularsi e iterarsi finiscono per non colpire nessuno: rumori, grida di uccelli, latrati, scricchiolii, luci intermittenti, grida, lamenti e ambienti sempre deserti: strade, stanze, corridoi, metropolitane – deserte anche nelle ore di punta, quelle in cui vanno a scuola i bambini: non sembra di essere a Seul ma a Milano in un ferragosto degli anni Sessanta. La giovane oculista, che nel frattempo si è trovata un amante nell’architetto che le rifà lo studio, comincia a temere che la stessa sorte delle due ragazze sia destinata alla figlia che le ruba sempre le scarpe rosse. La bimba, antipatica e brutta, comincia anche a dare i numeri. Dice, per esempio, che il padre va spesso a trovarla. A questo punto la madre si arrabbia e vorrebbe strozzarla, poi se ne pente e chiama la bambina in fuga nella metropolitana, naturalmente deserta: «Tesià. Tesià. Tesià, dove sei?». E lo ripete quattrocento volte sgranando gli occhioni da pazza; e tutti in sala ridacchiano e ripetono: «Tesià rispondi, così andiamo a casa».

Alla fine si viene a sapere, tra l’indifferenza generale e sbadigli infiniti, che l’oculista è pazza, che ha ucciso il marito e tutte le altre vittime in preda a uno sdoppiamento psicopatico o della maledizione scarparia. Segue flashback danzato dell’episodio storico che ha dato origine alla suddetta maledizione, mentre, dopo alcuni titoli di coda, ricompaiono un altro paio di scarpe, stavolta nera, quasi a dire che tutto può ricominciare. Che bella trovata! Un consiglio: al regista di darsi all’ippica coreana, allo spettatore di andare altrove.
(piero gelli)