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Steamboy

Inghilterra, metà Ottocento. Ray, giovane appartenente a una famiglia di scienziati, è un promettente inventore. Il ragazzo attende con ansia il ritorno del padre Eddie e del nonno Lloyd, partiti per l’America per proseguire le loro ricerche. Un giorno, Ray riceve dal nonno una misteriosa sfera, che poi scoprirà essere una potentissima fonte di energia a vapore. Sulla sfera si concentrano le mire della malvagia Ohara Corporation, che spera di utilizzarla per alimentare una torre-fortezza a vapore, un’arma devastante da vendere al miglior offerente. La Ohara fa dunque rapire Ray, riuscendo così a impossessarsi della sfera. Assieme al nonno e alla bisbetica Scarlet Ohara, viziatissima figlia del presidente della multinazionale, dovrà combattere per riottenere la sfera ed evitare che diventi una delle tante invenzioni costruite per scopi pacifici e poi usate per applicazioni militari. 

16 anni dopo
Akira
, uno dei film (e uno dei fumetti) più rivoluzionari mai prodotti nella terra del Sol Levante, Katsuhiro Otomo ritorna alla
science-fiction
con una pellicola animata che è non solo splendida dal punto di vista tecnico ma anche piuttosto originale nell’approccio. Il tema fantascientifico è infatti svolto sullo sfondo dell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale; lo spettatore è messo di fronte a incredibili meraviglie tecnologiche, che hanno però un aspetto retrò: piene di valvole e tubi, alimentate a vapore, le invenzioni si portano dietro una sensazione di precarietà e inaffidabilità, dando l’idea di potersi rompere da un momento all’altro. Curiosamente, un’estetica di questo tipo accomuna l’orientale
Steamboy
a un altro recente film d’animazione, di produzione però assolutamente occidentale, il Robots frutto della collaborazione tra Chris Wedge e William Joyce: un interessante caso di convergenza estetica. 

Otomo evita di spingere troppo sull’acceleratore: i macchinari sono sì grossi e complessi ma senza eccessive baracconate; le battaglie sono incalzanti ma mai troppo fracassone. Il risultato è un registro stilistico che si mantiene su un piano di eleganza, con poche concessioni al barocchismo (sempre relativamente parlando, si capisce…).

Il regista gioca molto sul contrasto tra forma e contenuto: dipinge il suo affresco retrotecnologico grazie all’uso di tutti i ritrovati più moderni del cinema d’animazione, facendo per esempio un pesante uso della
computer graphic
per tratteggiare gli splendidi sfondi su cui si muovono, perfettamente integrati, i personaggi disegnati. Una tecnica che lascia a bocca aperta.

Se è vero che un film è anche il suo stile,
Steamboy
di certo ne ha un sacco. Un po’inferiore invece il lavoro svolto sulla trama: il racconto delle avventure di Ray non presenta colpi di scena particolarmente imprevedibili, né si può dire che ci siano grandi raffinatezze dal punto di vista della sceneggiatura. 

In definitiva, un ottimo cartone animato, una pellicola che strapperà applausi anche al di fuori della ristretta cerchia degli appassionati di
anime
nipponici. Inutile dire che, per chi fa parte di quest’ultima categoria,
Steamboy
è un
must-see
.
(michele serra)