S

Second Name

Una mattina come tante altre, Theodore Logan parcheggia la sua automobile al lato di una strada che attraversa un bosco e si spara un colpo alla tempia pronunciando la frase «Buon compleanno Didi». La figlia venticinquenne Daniella (Didi) rimane sconvolta dalla morte inaspettata e apparentemente immotivata del padre cui era legata da profondo affetto. Quando la tomba viene profanata e il cadavere di Theodore violato, Daniella prende la decisione più importante della sua vita: inizia a indagare sulle misteriose circostanze del suicidio del padre. La sua investigazione si trasformerà gradualmente in un labirinto pericoloso nel quale si intrecciano religione, intrigo e morte. Didi entrerà in contatto con un mondo a lei sconosciuto ma nel quale, inconsapevolmente, è sempre vissuta. Sarà proprio questa scoperta a sconvolgerle per sempre l’esistenza.

Tratto dal romanzo
The Pact Of The Father
di Ramsey Campbell,
Second Name
è la seconda opera del giovane regista spagnolo Francisco
Paco
Plaza. Nella prima,
Abuelitos,
mescolava fantastico e noir. E al noir si torna con la vicenda della giovane Daniella alle prese con un mistero che di fantastico non ha niente ma che affonda le sue radici nella normalità di una comunità apparentemente tranquilla, annidandosi nelle cose e nelle persone che la ragazza più ama. Il canovaccio è un classico dagli ingredienti piuttosto prevedibili: atmosfere e ambientazioni fredde, quasi asettiche, colori molto scuri (la notte sembra non finire mai) e musica gotica. La protagonista entra in un universo di scritture codificate, di profezie che devono avverarsi, di sacrifici umani e sette segrete. Tutte riprese palesemente dal filone generato nel 1995 dal cult
Se7en
di David Fincher. Ma se nella prima mezz’ora lo spettatore si immerge in una serie di scene in cui è difficile distinguere il confine tra la paranoia e la realtà, nel corso del film perde l’iniziale interesse, intuendo «come va a finire» anche a causa di indizi un po’ troppo didascalici. Il rimando al capolavoro polanskiano
Rosemary’s Baby
è evidente, innanzitutto nel graduale svelarsi di un complotto ordito da un gruppo di persone apparentemente innocue e in secondo luogo nella presa di coscienza da parte della protagonista della «farsa» sino a quel momento vissuta. Daniella rilegge tutta la sua esistenza alla luce ambigua e torbida di eventi passati di cui non sospettava nulla e intraprende un percorso che la condurrà al confine della follia. Nulla di più simile alla trasformazione dell’innocente Mia Farrow-Rosemary che affrontava, dopo un’ineludibile presa di coscienza, un’allucinante maternità. Ma nella lettura di Polanski l’accettazione della convivenza con il male era una scelta obbligata, mentre Plaza pone la questione in termini diversi. È giusto accettare il compromesso o è meglio rimanere fedeli a se stessi anche a costo di perdere tutto (senno compreso)? La risposta è tutta nel finale che non lascia molte vie d’uscita.
(emilia de bartolomeis)