S

Samsara

«Siddharta aveva 29 anni quando decise di cambiare vita. Ma sapeva a che cosa rinunciava. Io no…». Tisha è un giovane monaco buddista. A cinque anni era entrato in monastero, dove era rimasto fino a quando aveva scelto l’isolamento totale fatto di privazioni e meditazioni per tre anni, tre mesi e tre giorni. Ma quando rivede il mondo, dopo aver riaperto faticosamente gli occhi e dopo aver tagliato i capelli lunghi tre anni, è inquieto. E come il Budda vuole andare alla ricerca del mondo. O forse solo dell’amore e del sesso. Incontra Pema, una ragazza bellissima. La sposa. Ha un bambino. Vive coltivando il grano. Ma non si adegua alle regole. Litiga con un mercante che appicca il fuoco ai suoi campi. Non tollera la gelosia di un vecchio rivale in amore. Tradisce la moglie che pure lo ama teneramente… Forse vuole cambiare vita un’altra volta. Adesso che sa a che cosa potrebbe rinunciare. Ancora una volta è inquieto e insoddisfatto. Ancora una volta vuole delle risposte che non possono arrivare. O forse sono a portata di mano… È più importante inseguire mille desideri o soddisfarne uno solo? «Come impedire a una goccia di acqua di asciugarsi?», è la domanda incisa sul lato di una pietra. Facile: gettandola nel mare…, sta scritto sull’altro lato, quello nascosto, quello mai visto prima.

È un bel film questo
Samrasa,
primo lungometraggio del regista indiano Pan Nalin, una lunga attività come documentarista. Samrasa è il ciclo eterno delle reincarnazioni, cardine della religione buddista. Un film interamente girato nel meraviglioso Ladakh (a parte gli interni in Germania), lo stato indiano nord-orientale dove l’Himalaya tocca quota 4500, dove le case dei villaggi sono incastonate nella roccia, dove il cielo può essere di un blu stupefacente, dove la natura è uno spettacolo e la vita scorre lenta. Lentamente spirituale. Pan Nalin affronta qui i grandi temi della vita, i grandi quesiti, il dilemma della scelta tra anima e carne, tra lussuria e rinuncia, tra gioia e dolore, tra individualismo e il suo contrario… Perché bisogna soffrire? Perché bisogna privarsi delle gioie? Perché sacrificarsi? E perché mai l’appagamento dei desideri terreni in realtà non porta alla Felicità? Le risposte non ci sono. Semmai si trovano negli insegnamenti del buddismo tibetano, che in questa regione indiana ha uno dei suoi baluardi. Un film «di formazione» e di crescita. Che si può apprezzare se ci si lascia incantare da quei paesaggi, da quei volti scavati dal vento, da quegli insegnamenti, dal Buddismo e dai suoi riti e dai suoi colori, da quel mondo. Lontano, meditativo e lento. E con una gestazione infinita, visto che per convincere la produzione a girare nel Ladakh Nalin ha impiegato sette anni e altri due ne sono occorsi per ottenere i permessi dal governo indiano. Per non parlare delle difficoltà (meteorologiche e respiratorie) di fare un film ad alta quota. Estenuante anche la ricerca degli attori che il regista esigeva professionisti ma non conosciuti e così Tashi è il newyorchese Shawn Ku, Pema è Christy Chung di Hong Konh e Sujata, la ragazza con la quale Tashi tradirà la moglie, è la tedesca Neelesha BaVora.