P

Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera

In cinque stagioni, da primavera a primavera, si svolge la parabola/zen che il film racconta, lasciando noi spettatori tra stupefazione, ammirazione e sconcerto, come quando chiudendo le pagine di un libro non si è del tutto convinti di aver capito fino in fondo quel che si è letto. In questo caso, è l’addensarsi dei simboli all’interno di una vicenda che ha l’esemplare chiarezza di un’operetta morale a indurre a dubbi: sì, l’eterno ritorno, la forza della volonta contro le tentazioni, la fedeltà alla natura, la rinuncia, la meditazione, sono temi e motivi che Schopenhauer dall’oriente aveva mediato e quindi tutto torna.

In uno scenario da fiaba, di incantata suggestione – un lago montano racchiuso in una valle e immerso in un’esuberante incontaminata natura – al centro dell’acqua c’è una sorta di minuscola isola o zattera costituita da una casa tempio in cui vivono un monaco buddista e un piccolo orfano, suo allievo. Il monaco cerca di insegnare al vivacissimo bambino, crudele come tutti i bambini nel perseguitare indifesi animali intorno a lui, gli insegnamenti delle leggi e della pietà buddista. Dalla primavera si passa all’estate, il bambino diventa adolescente e conoscerà il sesso e l’amore grazie a una ragazza che la madre porta a curarsi da una grave malattia dal monaco. L’adolescente non sopporterà la rinuncia alla ragazza e fugge abbandonando il maestro. Il film continua illustrando attraverso il trascorrere delle stagioni le tappe della vita, il cui irrompere spesso distrugge speranze e attese, soprattutto in chi non ha imparato, attraverso l’iniziazione, a frenare ogni impulso: «La lussuria sovente conduce al possesso e il possesso all’omicidio», sentenzia il monaco. Ed è quello che accadrà al suo giovane allievo, che scoprirà la gelosia, la violenza omicida e la prigione. Quanto al monaco, l’autunno termina con il suo suicidio/eutanasia, ed è una delle scene più toccanti, sublimi del film.

L’inverno gela il lago e la casa abbandonata ora la si raggiunge a piedi. E qui arriva, una mattina, un uomo, ancora giovane, che forse è quel giovane allievo che si è perduto o forse è un altro. Non importa. Così come non importa sapere chi sia la donna con il volto coperto, con un neonato in braccio che cerca ricovero al tempio. Forse è velata perché il figlio è una una colpa. Lei lo abbandona e muore annegando nel lago gelato. Ritorna la primavera, e il neonato ora cresciuto e lo stesso bambino dell’inizio, che ripete le stesse torture a pesci, ranocchi e serpentelli, mentre dall’alto del monte medita il nuovo monaco e veglia su tutto la statua di Budda, a significare che tutto si ripete, che l’incantata bellezza di quell’angolo di mondo, per quanto incontaminata, non preserva dalle passioni, dal dolore e dalla sofferenza che provocano.

In uno splendore formale che suscita un’ammirata partecipazione, il regista Kim Ki-duk sembra ricordare la lezione dei grandi maestri giapponersi, soprattutto Kurosawa e Oshima, tessendo con sovrana leggerezza il suo racconto tra parabola e sogno.
(piero gelli)