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Parola e utopia

La vita del gesuita Antonio Vieira: nel Seicento si schierò contro la schiavitù degli indios, andò in Vaticano e tornò in Brasile a morire… «Palavra e utopia non è un film documentario, né storico, né didattico o biografico, nonostante segua un ordine cronologico. È piuttosto una finzione con tutte le sue premesse che essa può permettere». Questa semplice dichiarazione di intenti, rilasciata da Manoel de Oliveira, illumina con la sua evidenza uno dei migliori film visti alla Mostra del Cinema di Venezia del 2000.
Palavra e utopia
: non un documentario, non un film storico su Antonio Vieira, gesuita perseguitato dall’Inquisizione, così come fine oratore, piuttosto la precisa e determinata affermazione di un corpo e una voce colti nella loro alchimia, di fronte alla scrittura. Si scrive con il proprio corpo. La scommessa di De Oliveira è in fondo questa: anche se colui che scrive non è colui che pensa, e neppure colui che declama. Tra queste tre azioni passa una finzione (di corpi e di tempi). Una porzione di spazio, chiaroscurale (chiari i riferimenti a Rembrandt e a certe atmosfere caravaggesche), nella quale inscrivere la traiettoria di una vita. L’inquadratura iniziale del film di De Oliveira è già una presa di posizione. Si ricostruisce un tempo, la Santa Inquisizione portoghese, si fonda un luogo-narrazione e si (ri)mette in scena la parola. È questa l’utopia de oliveiriana nel film più straubiano del maestro lusitano: E il verbo si fece cinema. In questa scansione di atti, parole e ritmi vive, in fondo, l’idea di un cinema che continua a pensarsi ancorato a un metabolismo antropocentrico: esperienza di una carne nell’epifania della parola, del tempo, che si manifesta come il luogo nel quale il cinema non solo si rivela ma dove questo compiutamente si realizza. Non illusione di una ritrovata unità catturata dallo sguardo che filma, ma cifra di un esilio che per darsi non può che mettersi in abisso e vivere, nutrirsi della propria solitudine. La stessa solitudine di padre Antonio Vieira, la solitudine di chi si trova minacciato dalla strana sensazione di una frattura in grado di sparpagliare il proprio corpo tra la parola scritta e una voce modulata da severi dispositivi oratori, e in cui qualcosa finisce per perdersi. De Oliveira, nonostante la veemenza della parola, continua a filmare come se il principio di individuazione dello sguardo (fautore di inquadrature nitide, severe) potesse infine stemperarsi in un atto di compassione (che pure giunge), ma la cui conquista non può non passare attraverso l’esperienza stessa di un tempo duro, inconciliato, in grado di manifestare il principio attivo del lavoro dietro le immagini. Quindi non un’esperienza di cinema facile, ma senz’altro una delle poche necessarie. Come sostiene il grande Paulo Rocha, De Oliveira si è dimostrato ancora una volta il vero architetto della tarda modernità cinematografica.
(rinaldo censi, giona a. nazzaro)