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La morte sospesa

Tratto da una vicenda realmente accaduta ai due alpinisti inglesi Joe Simpson e Simon Yates nel 1985. I due amici scalano la Siula Grande nelle Ande peruviane, passando da una parete fino a quel momento mai battuta da nessuno scalatore. La scalata procede tra difficoltà crescenti, finché Joe scivola e cade, restando sospeso nel vuoto, legato all’amico solamente dalla fune di sicurezza. Simon cerca di tirare su il compagno ma non ci riesce, mentre Joe è impossibilitato a risalire da solo la fune. La situazione rimane bloccata, finché Simon non prende la decisione più sofferta: taglia la fune. Tormentato, riesce a rientrare al campo, convinto della morte dell’amico, precipitato nel vuoto. Ma Joe, dopo diverso tempo, raggiunge il campo base. Al rientro dei due la comunità alpina accusa Simon di avere di avere tradito un inviolabile codice etico. Ma Joe decide di scrivere un libro per scagionare l’amico, libro da cui il film è tratto.

L’intenzione di questo lavoro è semplice: raccontare con il massimo della verosimiglianza una vicenda avventurosa e umana tanto intrigante quanto delicata sotto l’aspetto psicologico. Per questo i due protagonisti, dopo avere visionato diverse proposte, sono stati colpiti da quella della Darlow Smithson, l’unica casa di produzione che ha proposto loro di realizzare un docu-drama anziché un tradizionale film di fiction. Così Joe Simpson e Simon Yates, desiderosi di una ricostruzione il più possibile attendibile, hanno optato per questo progetto, curato dal giovane regista Kevin Macdonald, già premio Oscar nel 2000 per il documentario
One Day In September.

Ne è uscito un ottimo esempio di cinema al di fuori degli schemi abituali, un film-documentario originale, lontano anche dal filone dell’inchiesta alla Michael Moore. Al buon esito del progetto ha molto contribuito la forza della storia sottostante: poderosa sotto l’aspetto puramente spettacolare ma anche sotto quello psicologico, fino al punto di raggiungere valenze archetipiche nei temi della lotta per la vita e dell’amicizia tradita.

La regia, oltre che rispettosa, è davvero efficace. Attraverso immagini forti, che accompagnano per lungo tempo anche dopo che si è usciti dalla sala, Macdonald restituisce tutto il senso del dramma attraverso poderosi zoom out con cui isola progressivamente i due compagni fino a ridurli a dei puntini impercettibili su un’immensa parete nevosa, oppure attraverso i dettagli degli scarponi chiodati che cercano con pazienza punti di sostegno per sfuggire allo strapiombo verticale. Immagini bellissime, rese possibili anche dalle riprese realizzate fra la Siula Grande e le Alpi, nelle condizioni tormentate e affascinanti che una ricostruzione in studio non avrebbe potuto mai garantire.

Lo stile documentaristico, contrariamente a ciò che si potrebbe immaginare, non sottrae coinvolgimento ma lo aumenta: permette di cogliere l’essenza di queste imprese, attraverso una serie di particolari ed esperienze raccontate dai due protagonisti. I dettagli aiutano a cogliere la dimensione reale di queste sfide: è soprattutto la testimonianza, accesa ma non retorica, resa dai due protagonisti a catturare in modo particolare. Accuratezza e veridicità di ciò che vediamo su schermo, autografato dalle espressioni sobrie ma profondamente consapevoli dei due protagonisti, inducono una partecipazione emotiva che sfocia nella suspense e, addirittura, nell’ansia. Ci si riavvicina al senso etimologico di spettacolo, quello di semplice contemplazione di una realtà, contrapposto a quello moderno e imperante di artificiosa messa in scena. La suggestione emerge da sola dagli eventi della vita. Un modo di vedere le cose della cui forza spesso non ci ricordiamo più
(stefano plateo)