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La febbre

Mario Bettini (Fabio Volo), geometra cremonese, è un giovane idealista e sognatore. Assieme ad alcuni amici desidera aprire un locale e, pur di ottenere le facilitazioni necessarie, accetta un lavoro noioso e ripetitivo in Comune. Per la sua vitalità e carica ideale diviene vittima del mobbing di un dirigente invidioso (Massimi Bagliani), mentre le sue aspirazioni per l’apertura del locale vengono frustrate di continuo. L’incontro con Linda (Valeria Solarino), bella cubista appassionata di poesia, gli darà nuovo slancio, ma la ragazza a breve partirà per gli Stati Uniti con una borsa di studio. Ostacolato e scoraggiato, Mario dovrà trovare la forza per riemergere sia nella sua vita lavorativa che in quella personale, attraverso un percorso tortuoso che passerà anche dalle parole dei Presidente della Repubblica (Arnoldo Foà)

Un film che sa di furbizia. Dalla scelta degli attori (in particolare Volo, sul quale la pellicola è stata cucita), ai temi facili e di diffusa attualità, sino all’ambientazione in una Cremona simpatica e piacevole, a metà strada fra metropoli e paese così da accontentare un po’ tutti, come le location rassicuranti di certa fiction). Chi, avendone voglia, non riuscirebbe a trovare qua e là (o anche dappertutto) qualcosa in cui identificarsi?

Eppure
La febbre
possiede uno slancio e una sincerità che trapelano dai volti di alcuni attori, dalla partecipazione con cui vengono filmate diverse situazioni, dalla testardaggine con cui viene svolto il tema dell’Italia imperfetta e distante dalla gente. Al punto da scomodare il Presidente della Repubblica, con una scelta, ancora, furbetta, ma anche sentita e sicuramente originale.

La peculiarità del film, nonché ciò che maggiormente lo distacca da

Casomai,
precedente e riuscita collaborazione fra D’Alatri e Volo, sta proprio in questa critica a un Paese che è impossibile non amare, ma che sa anche rendersi detestabile.
La febbre
parla della realtà, interessandosi tanto alle vicende personali di Mario quanto al contorno sociale. Racconta come i malcostumi italiani (raccomandazioni, corruzione, burocrazia) si frappongano tra il protagonista e la sua felicità. E altrettanto si può dire del mobbing, con cui l’invidioso dirigente vessa Mario il sognatore. L’interposizione del mondo esterno fra l’individuo (o la coppia) e la sua felicità era già il tema di
Casomai
, qui però lo sguardo di D’Alatri si fa più attento, interessato anche alla vita pubblica, quasi sociologico. E diviene inquisitorio, anche se lo stile si mantiene sempre piuttosto leggero.

Il rischio consiste nel fatto che, mentre il film parla della realtà, tutto è ammantato di fiaba. D’Alatri decide che è possibile rivestire la vita di sogno, perché la realtà da sola è muta e ciascuno la fa parlare come vuole: se si è come Mario Bettini la realtà sarà un sogno, a costo di farsi venire la febbre. In sede di sceneggiatura si sono fatti convergere diversi snodi verso una visione conciliata: la sorte, secondo D’Alatri, la pensa come Mario. La sceneggiatura svolge comunque il suo compito, nonostante alcune ingenuità e qualche lentezza (inevitabile in un film che vuole parlare della burocrazia italiana).

Una nota a sé la merita il cast, variopinto come un carrozzone da circo. Vi sono i giocolieri, come Fabio Volo, che si conferma un buon attore, almeno finché recita la parte di se stesso; la bella trapezista Valeria Solarino, con un passato di teatro e cinema, perfetta per la parte; i clown, come Stefano Chiodaroli o Jannacci junior; le ballerine come Lucilla Agosti, veejay televisiva; persino i (vecchi) leoni, come Cochi Ponzoni, nella parte del padre di Mario, e un Arnoldo Foà – Presidente della Repubblica, che verrebbe voglia di abbracciare. Il collante, o se vogliamo i picchetti del tendone, sono i numerosi e validi attori di estrazione teatrale, chiamati a rinsaldare il film nei ruoli strategici. Un cast così mette allegria e non demerita.

Dal punto di vista del marketing siamo dalle parti di Muccino:
Ricordati di me
stava a
L’ultimo bacio
come, per D’Alatri,
La febbre
a
Casomai
. Pur con le debite differenze si tratta di operazioni simili: entrambi reduci da un film di successo hanno concesso il bis e insistito a fondo sulla formula che aveva già funzionato, realizzando una pellicola che possa parlare a tutti, con una pretesa di realismo sociologico e di rappresentazione della quotidianità. E in entrambi i casi si è perso per strada qualcosa rispetto all’originale. Qui finiscono le analogie: D’Alatri mostra un impegno civile, ha tonalità più leggere e, verosimilmente, otterrà un successo meno rumoroso. Per chi ha voglia di riflettere – senza troppo impegnarsi –
La febbre
è un piccolo specchio, che restituisce un’immagine (un po’ deformata) di se stessi e della società. Altrimenti lo si può prendere come una storia normalmente piacevole che racconta la quotidianità nella forma della fiaba, con gli slanci e i limiti di questa visione della vita.
(stefano plateo)