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Il cerchio

Otto storie al femminile nella Teheran di oggi. Otto donne (la mamma di una bimba femmina, la donna che votrrebbe abortire, le ex detenute, la prostituta, quella che è in crisi con il marito…) che cominciano o finiscono in prigione. Nel giro di un solo anno il cinema iraniano ha imboccato strade radicalmente nuove. Per quanto intollerabile fosse la cappa illiberale del regime, per anni il cinema si è limitato a produrre, con rigore estetico e suggestiva densità allegorica, parabole all’apparenza innocue. A costo di apparire ingenerosi, il cinema iraniano in fondo è stato un cinema di regime: critico e insofferente, certo, ma pur sempre irregimentato, apolitico e innocuo. La critica allo status quo, pur presente, andava decodificata certosinamente. E durante gli incontri pubblici gli stessi autori se ne tenevano ben lontani, per prudenza o per convenienza. Ora invece non ci sono più soltanto i percorsi lastricati di simbologie di Kiarostami e dello stesso suo ex assistente, Jafar Panahi. Quest’ultimo infatti, dopo
Il palloncino bianco
e il molto sottovalutato
Lo specchio
, ci consegna con
Il cerchio
un film espressamente politico, un atto d’accusa nei confronti della società iraniana e dei dettami dell’integralismo islamico che mortificano profondamente il ruolo della donna. È un’opera corale, in cui si avvicendano diversi personaggi femminili che condividono indelebili trascorsi carcerari: scacciate dalle famiglie, impossibilitate a interrompere la gravidanza, preoccupate di nascondere il proprio passato, costrette a esibire documenti che non possiedono – anche solo per viaggiare in autobus o per affittare una stanza d’albergo – o a regolarizzare la propria posizione con il vincolo matrimoniale. Non si tratta però di un film a episodi, perché l’idea centrale è quella di presentare un destino unico e collettivo allo stesso tempo. Un destino, per l’appunto, circolare, che parte dal carcere e si conclude in carcere quale unica, fatale conclusione di esistenze deprivate di dignità e di diritti umani. Resta però una questione da affrontare: Il cerchio, che è indubbiamente un ottimo film, vale più per quel che dice e per la tempestività con cui affronta certi argomenti o per come lo fa? Panahi uno stile ce l’ha, e questo non coincide con il magistero kiarostamiano.
Il cerchio
costituisce un atto di protesta, ma non si ferma alla superficie del fenomeno. Innanzitutto la costruzione per tasselli concatenati non tende all’accumulo di casi esemplari ma riflette un’esemplarità sfaccettata della condizione femminile. Sopravvive, come nei film precedenti, la tecnica zavattiniana del pedinamento come dimensione diuturna, estenuante e rivelatrice. Però si fa strada, ora che l’autore ha scelto di sottrarsi all’ambiguità e ai doppi sensi ostentati, la ricerca di una dimensione psicologica approfondita e persistente, che si evince – al di là delle tappe obbligate di un racconto molto calibrato – dai silenzi prolungati e dalle inquadrature fisse. In queste pause extranarrative, che intensificano il rapporto dello spettatore con i personaggi, dolenti, perseguitati e immobilizzati,
Il cerchio
sfugge dai confini del film a tesi.
(anton giulio mancino)