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Heimat 3

Gli undici episodi di
Heimat 1
li abbiamo seguiti con passione in tv. I tredici episodi di
Heimat 2
erano diventati, agli inizi degli anni Novanta, l’appuntamento settimanale al cinema Colosseo di Milano, un appuntamento cui non si poteva rinunciare tanto avvincevano le vicende dei due giovani musicisti, Herman, compositore, e Clarissa, violoncellista, e di tutti gli altri. Lo sfondo: la Monaco degli anni Sessanta, poi la Berlino degli anni Settanta.

Immaginate quindi con quale attesa e trepidazione sono andato a vedere il primo dei sei episodi che compongono
Heimat 3,
che dal 1989, anno della riunificazione della Germania, arriveranno alla fine del millennio.
Ma questo primo episodio,
Il popolo più felice della terra,
più che deludermi mi ha sgomentato per la grevità e pesantezza didattica, per l’ingenuità psicologica dei personaggi.

Herman e Clarissa si ritrovano casualmente a Berlino, proprio la sera della caduta del muro. Lui è diventato un grande direttore d’orchestra, internazionalmente acclamato; lei, abbandonato il violoncello, una famosissima cantante lirica. Per diciassette anni si erano persi, travolti dal successo. Ma l’amore rinasce di nuovo, improvviso e trascinante. Sull’onda dell’entusiasmo partono per un viaggio sul Reno, per arrivare al paese di lui, Schabbach, nell’Hunsrück, ai confini con l’Olanda. Qui c’è una casa storica, la casa di una poetessa tedesca suicida, tale Günderrode. Decidono di acquistare la periclitante e sinistra, ma anche stupenda Günderrode Haus. Sarà il loro nido d’amore. Hermann è un po’ inquieto: a pochi passi c’è il luogo della sua infanzia, i parenti, gli amici; insomma il ritorno. È come se non se ne fosse mai andato.

Tutto questo primo episodio segue la costruzione della casa, eseguita con l’entusiasmo di quattro giovani operai della Germania Est, pieni di stupore nel momento del contatto con l’altra Germania, quella capitalista.

Sono quindi due i temi che il regista alterna: da un lato quello privato, le difficoltà della coppia tesa tra le pulsioni dell’amore e gli obblighi di una carriera che li proietta sempre in luoghi diversi; dall’altro il tema della riunificazione, in questo primo episodio vissuto idillicamente. A questo potremmo aggiungerne un terzo, più politico, perché il territorio dell’Hunsrück, è stato per anni, e lo era anche nel momento in cui il film è ambientato, luogo di occupazione militare aerea americana: una piattaforma di lancio per bombe nucleari e razzi a media gittata.

Edgar Reitz è un grande maestro di saghe storiche, ha il dono di saper raccontare, come pochi altri, una storia in cui vicende private e contesto storico si connettono e illuminano. Ha la stessa capacità di Truffaut di seguire i personaggi di film in film, maturandoli, seguendone la loro Bildung. Manca purtroppo della levità del grande regista francese. Le doti suddette tuttavia salvano in parte questo episodio. Lo si segue con attenzione, nonostante da subito affondi in un didascalismo pedestre, in un dialogo teatralizzato al massimo, che offusca ogni intuizione, perché tutto è troppo detto, e ripetuto. I quattro operai dell’Est sono troppo epidittici, troppo buoni; l’amore in difficoltà logistica dei due è poco credibile: il mondo classico è pieno di direttori di orchestra che hanno sposato un soprano o una musicista in genere: è un vantaggio, non un impedimento. Poi c’è una scena ridicolmente indimenticabile: la vecchia madre di Clarissa che va a trovare il celebre direttore e gli ordina di lasciar perdere la figlia (ricordo, ormai quasi cinquantenne): neanche Matarazzo insieme a Niccodemi sarebbero riusciti a renderla credibile! Ci sono poi, tanti momenti riusciti, sequenze degne di ammirazione, momenti musicali affascinanti. Insomma, sospendo il giudizio, perché capisco che questo primo episodio, così nodale e delicato, è anche il più difficile. Staremo a vedere.
(piero gelli)