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City of God

Si parte dalla fine: Buscapé, nero e riccio, ha in mano una macchina fotografica. L’immagine si ferma. Buscapé è immobile, in mezzo a due schieramenti di gente che in mano ha, invece, mitra, fucili e pistole: da una parte la banda di criminali di Ze Pequeno, dall’altra la polizia corrotta. E allora Buscapé torna indietro per spiegare come è finito lì, in mezzo al fuoco. A partire dalla fine degli anni Sessanta quando lui era un ragazzino con un fratello delinquente nella Cidade de Deus, l’immensa, misera, amorale favela di Rio de Janeiro. Dove i ragazzi fanno rapine perché ce l’hanno nel sangue, dove i bambini (sette-otto-nove anni…) ti minacciano con il coltello per dimostrare che sono grandi, dove la vita vale meno di niente, dove si spara, ci si ammazza, si sniffa, si fuma e dove nessuno vede mai niente di quel che succede. La vita (vita?) nella favela, quando Buscapé è ancora un ragazzino, è scandita dagli omicidi delle bande che si fanno la guerra per conquistarsi quel misero territorio. Ma c’è un criminale che è più criminale degli altri, Ze Pequeno, che vediamo bambino alla sua prima rapina, alla sua prima strage quando supera di poco il metro d’altezza e lo ritroviamo, cresciuto e orribile (dentro e fuori), a capo della sua squadriglia di assassini che seminano il panico ma, padroni incontrastati della favela, riescono a controllare la malavita concorrente. Qualcuno però si ribellerà. Gli anni passano, Buscapé è un buono con qualche tentennamento (fallisce i suoi primi due tentativi di rapina e si mette l’animo in pace) e la passione della fotografia. Osserva quel che succede. Riesce, per caso, a pubblicare le sue prime foto sul giornale. Fino a quando con quella macchina fotografica in pugno riesce a immortalare il clou dello scontro tra criminali e polizia. Lui è lì in mezzo. E ce la farà a uscirne. Vivo.

Il regista brasiliano Fernando Meirelles, con alle spalle una carriera di documentari, corti e spot pubblicitari, racconta la vita (meglio, la morte) nella favela di Rio. Sei mesi a Rio, centinaia di ragazzi (e bambini, e donne che spesso hanno improvvisato sul set) della favela come attori, e un libro,
Cidade de Deus
di Paulo Lins, un altro figlio della baraccopoli, come soggetto per questo film duro, violento, agghiacciante. Ma anche ironico, musicale e mai compiaciuto. C’è tutta la crudeltà di quell’inferno, la crudezza, la rassegnazione, l’ineluttabilità. Perché nella Cidade de Deus l’unica legge che c’è è quella del più forte. Ed è forte chi ha più soldi, frutto di spaccio e di rapine. Quindi di sangue.. Perfetto il montaggio indiavolato come il ritmo del film e dei morti ammazzati; bella la fotografia che scandisce il passaggio dei decenni, dal giallo annebbiato degli anni Sessanta ai colori della spiaggia degli anni Settanta con la discomusic in sottofondo, al buio delle strade e degli interni punteggiati di cadaveri. Un film duro senza nessuna pietà da parte dell’autore, ma anche senza moralismi. Per capire quello che succede veramente in quel pezzo di mondo. Perché quella della Cidade de Deus è una storia vera. Come vero è il protagonista, oggi un noto fotoreporter.