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Brother

Brother
parte da uno spiazzamento deciso e inusuale per «Beat» Takeshi: la storia di un gangster yakuza, costretto a lasciare il Giappone per l’America, dove fonda una nuova banda. Questo spostamento è già palese nella prima inquadratura, in cui il protagonista è all’aereoporto. E dalla seconda, sbilenca immagine riaggiustata sotto gli occhi dello spettatore: una maniera visiva e una metafora abbastanza palese per mostrare una nuova collocazione del punto di vista. Tutto
Brother
narra di questo sforzo per ricentrare una posizione, per ritornare su un asse. E allo stesso tempo, dell’inevitabilità dello scacco, dell’essere per la morte dei personaggi che, a piu’ riprese, asseriscono: «È finita. Moriremo tutti.» Questa prematura morte dei personaggi di Kitano è una delle caratteristiche dei suoi film passati. Qui, addirittura, i lampi di un’intera sparatoria si riflettono sul volto di un cadavere; è tutto quanto sapremo di una strage, i cui protagonisti sono già morti, del tutto indifferenti come il loro principale spettatore. La messa in scena della violenza in
Brother
oscilla pertanto tra l’astrazione di
Hana-Bi
e alcune scene di rara crudezza; quasi esistesse una perenne oscillazione tra l’iperrealismo americano e il gusto della sineddoche giapponese, l’ambizione a dire qualcosa per traslazione. Così, alla strage riflessa da un cadavere fanno da contrappunto alcune morti particolarmente cruente, inscenate dal punto di vista della vittima. Lo spettatore in un caso è una salma, nell’altro uno sguardo destinato a patire: essere al posto di qualcuno che di lì a un attimo si troverà due bacchette da riso nel bulbo nasale è una posizione imbarazzante…
Brother
è la storia del pericolo di una perdita di identità, della sospensione in cui Aniki (Kitano Takeshi) versa: obbligato a lasciare il Giappone e a cambiare nome, Aniki si ritrova in una società multirazziale, in cui l’elemento etnico è il codice della differenza e quanto oppone una banda all’altra (messicani, italiani…); una cultura di cui non capisce la lingua, come i suoi ricordi privi di sonoro rivelano; uno spazio da attraversare nel suo modo piu’ consueto: abbattendo gli ostacoli che si pongono sulla linea retta del suo cammino. La coazione a ripetere, l’avanzamento rettilineo e privo di senso sono la cifra dell’intero film, ibridate con una narrazione di ascesa e caduta, nella tradizione dei grandi eroi americani. Aniki e uno dei neri della banda, Danny, passano le loro giornate a scommetere nei modi piu’ disparati. In certa misura,
Brother
è la storia della possibilità di questa scommessa, del desiderio di lasciare una traccia attraverso un incontro: per questo percorsi in apparenza diversi, o contraddittori, si trovano sovrapposti: l’essere per la morte degli eroi giapponesi e il racconto del fallimento del capitalista, della sconfitta di un progetto di miglioramento umano e sociale – da
Scarface
di Howard Hawks in giù.

Brother
, in un’operazione esattamente uguale e contraria a
Ghost Dog
di Jarmusch, inscena uno yakuza costretto a rifondare su base multietnica una famiglia e a muovere una corsa al successo distante dai suoi presupposti di guerriero («Faccio la guerra anche in America», confessa al proprio luogotenente…). Rivelazione di un procedere sempre meno ignaro delle reciproche cinematografie: non solo Hollywood assimila sempre piu’ massicciamente il cinema orientale, ma anche questo tenta di mettere in luce le proprie nascoste radici. L’ultima inquadratura è esplicita: un lunghissimo, protratto piano su un nero che chiama fratello un giapponese, a segnare il passaggio da una fratellanza di sangue a una di affinità.
(francesco pitassio)