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Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan

Finalmente esce anche in italia, con un ritardo incomprensibile, il film del comico britannico Sacha Baron Cohen, costruito come un pseudo-reportage sugli Stati Uniti odierni: Borat, studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan racconta di due sprovveduti personaggi kazaki, il giornalista Borat Sagdiyev (Sacha Baron Cohen) e il suo produttore Azamat Bagatov (Ken Davitian) che prima a New York e poi nel resto del Paese, fino ad arrivare in California, girano alcune interviste per un documentario da far vedere ai loro compatrioti.
Irriverente, satirico, dichiaratamente osceno, liberatoriamente coprofilo, il film è davvero esilarante, sia quando con grana grossa crea situazioni di scabrosità corporali di ogni genere facendo tornare bambino lo spettatore, sia quando, con più sottile perfidia, mette in imbarazzo l’intervistato o gli intervistati denunciandone tutta l’ipocrisia, il razzismo, il perbenismo e la stupidità. Perché – ed è questo l’aspetto più nuovo dell’opera di Cohen – alcune interviste sono vere, strappate ingenuamente al malcapitato, dopo firme liberatorie miranti a impedire ritorsioni legali che comunque ci sono state. Da questo punto di vista, indimenticabili sono gli episodi del protagonista a contatto con una “setta” di ricchi pentecostali oppure il viaggio in camper con un gruppo di giovani Wasp razzisti, episodi indubbiamente veri, da cinema verità. Come irresistibile fino alle lacrime è Borat alle prese con corsi di bon ton tenuti da una Lina Sotis locale di imperturbabile cortesia.
Ma è meglio non citare battute o circostanze comiche, come troppi giornali hanno fatto, col risultato di bruciare, anticipandole, le fulminanti battute e le stralunate situazioni che si creano a contatto con due universi incomunicabili, diversamente acculturati.
Nonostante la derivazione televisiva – Cohen è conosciuto da anni in Gran Bretagna per la sua serie televisiva Da Ali G Show – la comicità messa in atto si basa sullo studio di meccanismi che il cinema muto conosceva bene, basti pensare alla coppia formata da Stan Lauren e Oliver Hardy e alla loro sprovvedutezza generatrice di disastri, e su atti descritti mirabilmente da Pirandello (vedi il saggio su L’umorismo) nel loro implacabile congegno. Su questa base di comicità classica (il protagonista ricorda fisicamente perfino il nostro Ciccio Ingrassia), si instaura un più feroce umorismo, di verbalizzazione ebraica (da Mel Brooks a Woody Allen), che colpisce, con effetti irresisitibili, tutta la vernice perbenista della società occidentale (non più solo americana) e i suoi tabù linguistici e comportamentali. (piero gelli)