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Biancaneve

Diceva in un’intervista quasi cinquant’anni fa Augusto Genina, uno che conosceva il cinema come le proprie tasche: «Si può sbagliare un film all’inizio, nel mezzo, ma mai alla fine». L’ultimo lavoro di Monteiro è un film straordinario, con un finale ancor più sorprendente: dopo avere inflitto per 70 minuti su 75 uno schermo nero allo spettatore, inframmezzato unicamente da brevi piani di cielo, l’ultima inquadratura ritrae frontalmente il cineasta portoghese che scandisce sulle proprie labbra la frase «C’est fini!». Ultimo sberleffo a uno spettatore esausto dal tour de force ipnotico a cui ha assistito, beffa finale di un cineasta da sempre pronto a essere in primo piano nelle proprie opere: il (Don) Giovanni di Dio, demiurgo melanconico di mondi improbabili.
Branca de neve
ha la propria origine in un testo di un altro autore lunare, uno dei maggiori e meno noti scrittori del Novecento: Robert Walser. La scrittura di Walser è stata già portata sul grande schermo, dai fratelli Quay con
Institute Benjamenta
(1996). Ma la scommessa tentata dai Quay si è infranta sulla dilatazione dei tempi narrativi e l’adozione parossistica del dettaglio, mentre le pseudonarrazioni walseriane prediligono la forma breve e il flusso discorsivo. Tutt’altra l’operazione di Monteiro. Se Walser sceglie di lasciare che le parole divorino i personaggi, il racconto, l’autore stesso, Monteiro adotta un equivalente cinematografico: i dialoghi tra Biancaneve, il padre, la regina, il cacciatore e il principe azzurro invadono la rappresentazione e ingurgitano tutta l’immagine, persino la luce. Rimane uno schermo nero, su cui le voci risuonano con forza tanto maggiore. E questi dialoghi ripercorrono insistentemente la storia di Biancaneve: la regina l’ha veramente fatta uccidere o no, il cacciatore ha avuto veramente pietà di lei o meno? Le prime inquadrature di
Branca de neve
sono alcune foto di Robert Walser. L’autore di
La passeggiata
vi è ritratto cadavere nella neve, al momento del ritrovamento del corpo. Anche Biancaneve a più riprese sostiene di essere morta, e questo nero pervasivo è lo stesso sguardo di un morto, in uno dei film più funerei che si possano immaginare – tutt’altra operazione da
Blue
(1993) di Jarman, colore della memoria e dell’ultimo disperato vitalismo. Così lo spettatore si ritrova ad agognare disperatamente un barbaglio di luce: gli stessi piani di un cielo vuoto divengono irrinunciabili momenti di respiro, tanto più necessari quanto meno concessi. Lo stato del cinema ci ha abituati a una sovrapproduzione di immagini, a una loro sovrapposizione ottusa, ovvero ad un’indifferenza della rappresentazione a se stessa. Monteiro ha il coraggio di girare un film, per poi eliminare dal montaggio tutte le immagini e disseccare il racconto di tutto il superfluo del visivo. Ora davvero ogni immagine è necessaria. E lo sberleffo acquista tutto il suo senso.
(francesco pitassio)