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Uttara (I lottatori)

Una località sperduta del Bengala, stato orientale dell’India. Due impiegati ad un passaggio a livello, Nimai e Balaram, appassionati di lotta. Una moglie giunta a turbare l’agonistico idillio maschile. Un villaggio di soli nani. Un prete con un bambino. Tre malviventi accampati. Queste alcune coordinate di un universo chiuso e autoregolato, le pedine di un gioco in cui ciascun ruolo svolge la funzione di una frase in un discorso allegorico su Società, Famiglia, Natura, Uomo/Donna e così via discorrendo. Lo spazio del racconto delinea un’amicizia maschile perfettamente conchiusa nell’agonismo, nella sua endemica omosessualità. Un luogo puro, sulla cui scena si intromettono prima i malviventi, giocatori e donnaioli, poi la donna, portatrice di affetto e turbamento. Buddhadeb Dasgupta, cineasta, poeta e romanziere bengalese, si dibatte per 100′ tra l’esaltazione di una purezza autarchica, manifestata da piani costruiti sull’astrazione dei propri componenti, e l’apprezzamento per l’ibridazione, la varietà, l’alterità. Sono presenze anomale e piuttosto inspiegabili: il gruppo di nani, che attraversano inattesi le inquadrature; un corteo di danza tradizionale. Così, tra il desiderio di parlare d’altro mostrando corpi in lotta, di adottare le inquadrature per il loro valore simbolico, e la felicità di piani sempre aperti al fuori campo, scorre un film indeciso. Un masso rotola al termine del film, come un sigillo metaforico.
(francesco pitassio)