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Un tempo per i cavalli ubriachi

In un’impervia zona del Kurdistan iraniano ai confini con l’Iraq, cinque giovani fratelli provvedono come possono ai loro bisogni. Uno di loro soffre di disturbi della crescita curabili solo con un’operazione. Così sua sorella decide di sposarsi con un facoltoso iracheno, ma la nuova famiglia rifiuta il ragazzo. Allora il fratello… Il nuovo prodotto della scuola iraniana (vincitore di una «Caméra d’or» a Cannes 2000) conferma interrogativi e certezze su questo tipo di cinema. Senza dubbio non si può che ammirare l’abilità del regista – qui al suo esordio – per la facilità con cui dispiega un materiale vario e complesso. Infatti, se la storia segue un andamento piuttosto lineare, sono le invenzioni visive (il modo di dare forma drammatica a un ambiente naturale selvaggio) e soprattutto la direzione dei giovanissimi protagonisti, che si mettono in campo con il loro corpo e con le loro emozioni in maniera totale, a cogliere l’attenzione dello spettatore. Questo connubio tra neorealismo e plastica delle immagini – che ricorda tanto l’ultimo Makhmalbaf – costituisce tuttavia la forza e il limite dell’operazione. Il film di Ghobadi è puro e perfetto anche quando descrive vite contorte e destini troncati: in un cinema che gioca direttamente con la natura documentaria della realtà ripresa, una confezione così accurata rischia però di essere controproducente. A un certo punto (quando ormai l’opera veleggia verso un lirismo di forte impatto, vale a dire durante la traversata nella neve compiuta dai due fratelli) sorgono alcuni dubbi sulla natura delle immagini elaborate. A poco a poco il substrato documentario su cui il film si appoggia sembra scomparire, inghiottito dalla fiction. Gli interpreti, che con la loro presenza avevano robustamente innervato la vicenda, finiscono per essere trattati come attori. E proprio quando la pellicola dovrebbe decollare (e infatti lo fa, se si guarda allo stile e al ritmo della narrazione) a noi è parso che svelasse una pericolosa deriva che il cinema iraniano pare aver imboccato.
(carlo chatrian)