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Un sogno per la vita

Il cinema americano è abile a manipolare storia pubblica e privata, a dolcificarla, a indirizzarla per intenti patriottici, familiari, religiosi o meramente ricreativi. Ovvio che esiste anche l’altro cinema, per fortuna, come è altrettanto ovvio che il cinema «manipolato» è spesso grande cinema e grande spettacolo.

Non è il caso, purtroppo, di
Neverland, un sogno per la vita,
che Marc Forest ha ricavato da una pièce di Allan Knee, ispirata alla vita e all’opera di James Matthew Barrie, il fortunato creatore di Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere, che volava e conduceva gli altri bambini nell’Isola che non c’è, luogo dell’immaginario infantile, popolato da creature mostruose e favolose.

Anche senza scomodare Freud, già «in carriera» (siamo agli inizi del Novecento), è inutile ricordare a quanti riferimenti psicologici, sociologici, simbolici, mitologici abbia dato adito la creazione di questo personaggio-folletto; assai più, direi, che non Pinocchio o Alice.

Ma veniamo al film. Che segue la vita di Barrie, a Londra, a partire dal tiepido fiasco della sua ultima commedia. Nei giardini di Kensington, oziando alla ricerca di nuove idee teatrali, incontra i quattro figli di Sylvia Llewelyn, da poco vedova. Rimane incantato dai ragazzi, diventa loro amico, li coinvolge in giochi o partecipa alle loro fantasiose avventure come fosse un coetaneo; si traveste da pirata e commette stramberie da ritardato mentale, agli occhi dei cosiddetti normali; in realtà a poco a poco crea con loro quella che diventerà la commedia di Peter Pan, da cui deriveranno, in seguito, due romanzi. Se la vedova accetta incantata, il vicinato mormora (come si dice) e la di lei madre è ferocemente ostile, mentre la giovane moglie dello scrittore, sospettando una sbandata per Sylvia, finisce per tradirlo con un avvocato amico e poi per lasciarlo. Barrie riuscirà a metter su la commedia ideata con i suoi giovani amici, e sarà un grandissimo successo. Quasi contemporaneamente la vedova, ammalatasi di tisi, muore, lasciando tutore dei propri figli il commediografo e la madre, mentre in sala si sentono soffi di narici e, con la luce, si scorgono occhi pieni di umida commozione in molti dei presenti. Commozione facile facile, estirpata con mezzi ignobili, come si suole.

Perchè poco di quello che racconta il film corrisponde alla realtà. Per esempio Sylvia Lleewelyn non era vedova; lo diventerà soltanto nel 1907, tre anni dopo la première londinese della commedia. Suo marito detestava Barrie e ne era contraccambiato. Quanto a Barrie, sposò Sylvie (che morirà nel 1910) e divenne patrigno di quei ragazzi che, però, con gli anni, finirono col non sopportare più i suoi giochi. Di fatto era Barrie che non voleva crescere, mentre crescevano riconoscimenti, onorificenze e prebende.

Quanto ai figliastri, per una sorta di nemesi peterpanica («Morire sarà un’avventura grandissima», dice il protagonista) finirono tutti malamente: il primo morì in guerra nel 1915; il secondo, non accettando la sua omosessualità, si affogò in un lago ghiacciato con l’amico, nel 1921; un terzo infine, dopo la morte «naturale» del quarto, si gettò sotto il treno della metropolitana di Londra.

E Barrie che tipo era? Non così affascinante come il fascinoso Johnny Depp. Bassissimo di statura, aveva la voce fessa e sottile; a trentanni, nelle foto, con due folti baffi, sembra un bambino in maschera. Sempre innamorato, era tuttavia incapace di un rapporto adulto e con la moglie il matrimonio non fu mai consumato. Barrie non era un pedofilo «sublimato», come qualcuno ha potuto pensare, ma soffriva di quello che i medici chiamano pubertà ritardata; fisiologicamente aveva l’età di un dodicenne, il che, naturalmente, non gli impediva di essere un genio e un uomo generoso e affettuoso.

Non solo tutti questi dati sono alterati o falsificati a favore di un mercinomio lattemieloso di disponibilità umana e genialità creativa, di fantasia e ricostruzione storica, ma ogni possibile interpretazione delle molteplici e ambigue correlate al personaggio e al suo autore viene come azzerato dai ristagnanti buoni sentimenti in cui il regista chiude la vicenda. Poco e nulla traspare, perché il pubblico non si preoccupi; e tutto è falso, dalla leziosa gentilezza di Barrie alla dolcezza moribonda di Sylvia (Kate Winslet) all’antipatia manierata della Signora Du Maurier.

Dalle macerie si salvano soltanto la scena finale della prima teatrale e la recitazione superba di Dustin Hoffman, nel ruolo del generoso impresario teatrale Charles Frohman. Da non dimenticare inoltre il commovente straordinario interprete del piccolo Peter, tale Freddie Highmore.
(piero gelli)