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Un film parlato

Esiste, anzi esisteva una «mediterraneità» che per secoli ha unificato lingua e culture diverse, nate però da un unico grembo. Parafrasando Predrag Matvejevic, Manoel de Oliveira filma una stupefacente parabola, per capire a fondo la quale si devono attendere gli ultimi cinque minuti che ne ribaltano la prospettiva e, innanzi tutto, bisogna recuperare la nostra sepolta «naivetè», ovverosia la capacità di tornare a vedere la realtà come se fosse la prima volta, come fossimo bambini. Ed è infatti con gli occhi di una bimba di otto anni che, per buona parte del film, vengono colte le immagini dei luoghi topici della nostra civiltà.

Una giovane professoressa universitaria di storia coglie l’occasione di ritrovarsi a Bombay col marito, pilota di linee aree civili, per fare una crociera e visitare con la figlia Maria Joana tutti quei luoghi che lei finora ha conosciuto solo sui libri. Si parte da Lisbona e dalla sua Torre di Belèm, si scorge Ceuta lontana, si scende a Marsiglia, a Napoli si visitano le rovine di Pompei, poi Atene e il suo Partenone, Istanbul, l’Egitto e le sue piramidi e infine Aden, come ultima tappa, dopo la quale il viaggio si interrompe e non vi racconto perché. Durante queste soste «turistiche», scandite dal primo piano della prua della nave che solca il mare, salgono a bordo tre donne in carriera, una francese (Catherine Deneuve), ricca donna d’affari, un’italiana (Stefania Sandrelli), ex-modella famosa e una greca (Irene Papas), attrice e cantante. Il comandante della nave (John Malkovich) gentiluomo e charmeur, americano ma di origine polacca, le invita come ospite alla sua tavola cui, in un secondo momento, si aggregheranno anche la professoressa e la piccola figlia.

Questa seconda parte del film, prima della sorpresa finale, è costruita quasi come un’unica sequenza, con pochi stacchi di macchina, spesso fissa, come nel grande Ozu, ed è un solo inno – sotto la forma di una conversazione anche sempliciotta, quasi banale, da chiacchiera da tavola – alla nostra civiltà in declino, una civiltà fondata sui valori della cultura greca, dove tutti si capiscono pur parlando lingue diverse, perché la cultura unifica nella diversità democratica, dove tutte le opinioni sono accette, dove l’educazione, la gentilezza, l’arte di intrattenere predominano. Ci si rende conto che a quel tavolo siede un’umanità in via di estinzione, che la nave è una narrenschift, se si sostituiscono ai narren, ai folli, quei superstiti laudatores di valori non più in commercio. Con il suo modo essenziale, forse un po’ tanto semplicistico, ma disarmante, incantato e struggente di raccontare, il «grande vecchio» del cinema riesce ancora una volta a commuoverci e a lasciarci, grazie alla sequenza finale, con l’animo ulcerato e sgomento.
(piero gelli)