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Totò che visse due volte

Pellicola maledetta del decennio, in una cinematografia (quella italiana) che di roba maledetta ne ha tirata fuori ben poca, Totò che visse due volte è il casus belli che ha portato all’abolizione della censura preventiva in Italia. Flop in sala, va recuperato in cassetta (integrale in tv non lo vedrete mai), anche perché sarebbe un peccato ridurlo alle polemiche che lo hanno accompagnato. Totò che visse due volte è uno dei più bei film italiani degli anni Novanta (a giudizio di chi scrive, il più bello). Lungamente covato, realizzato con quattro soldi e una troupe militante, rifinito a più riprese con una cura da cinema d’altri tempi. Tre episodi che sembrano racconti di Poe (i primi due) e un apologo da agiografia medievale (l’ultimo), gotici e carnevaleschi, su un’umanità senza donne ma (perciò?) dominata dal sesso, dalla fame, dagli istinti bassi e primari.
Dalle strisce di «Cinico Tv», il formidabile duo approda a un cinema di monumentalità quasi bizantina, strutturatissimo, quasi più viscontiano che pasoliniano. La costruzione narrativa del primo episodio è compatta, rapida e implacabile: Paletta è un «povero cristo» malato di sesso, che ruba a un’edicola sacra per pagare una prostituta e che nella stessa edicola finisce murato dal mafioso devoto. Il secondo episodio è il più complesso, con flashback e voci narranti, quasi virtuosistico nell’intrecciare la veglia funebre di un omosessuale, il furto di una caciotta appartenuta al morto da parte del suo ex compagno e l’arrivo di topi vendicatori. Infine l’episodio più colpito dalla censura, ma anche il più sublime, quasi dreyeriano: la storia di Gesù Cristo, oggi a Palermo, che si scontra (gnosticamente?) con un suo «doppio», un capomafia che ha sciolto Lazzaro nell’acido. Quando Gesù/Totò fa resuscitare il poveretto, il boss si vendica: sulla croce muore un povero scemo e il Messia finisce a sua volta nell’acido. Non un film per anime belle quindi, ma una delle espressioni più spirituali e tragiche che l’arte italiana di fine millennio si sia permessa (qualcosa di altrettanto massimalista e «crudele» – nell’accezione di Antonin Artaud – la si può trovare nel teatro della Societas Raffaello Sanzio); una delle poche cose che – per usare le parole di Carmelo Bene – in tempi di morte del cinema come questi valga la pena di essere vista. (emiliano morreale)