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Thomas in love

Thomas, un giovane che soffre di una forma acuta di agorafobia, da otto anni si è volontariamente rinchiuso in casa. I suoi unici contatti con il mondo esterno avvengono tramite un computer. Thomas, nonostante tutto, è felice. Ma solo. Il riaggiornamento di un discorso amoroso (che scivola velocemente verso la commedia sentimentale) alle atmosfere cibernetiche del nuovo millennio lascia abbastanza perplessi.
Thomas in Love
dipende più dalle scenografie e dalle battute che dalle idee di regia. In fondo, la realtà virtuale predisposta (non senza inventiva) da Pierre-Paul Renders non è che un pretesto per mettere in scena la storia più vecchia del mondo. Un uomo e una donna. Che poi l’incontro avvenga solo grazie a uno schermo video è ben poca cosa. Il partito preso dal film comporta due conseguenze, entrambe già note ed entrambe abbastanza inconcludenti. La prima riguarda l’impiego massiccio della soggettiva (tutto ciò che vediamo è la realtà telematica di Thomas): da questo punto di vista l’incipit di
Strange Days
aveva già detto ogni cosa. La seconda ha invece a che fare con la prevalenza di piani ravvicinati. La realtà virtuale, o quella riprodotta dalle piccole telecamere da scrivania, è fatta di primi piani o di dettagli. La sensazione di claustrofobia che questa soluzione induce raddoppia la posizione del protagonista, configurandola da un punto di vista morale assai preciso. Entrare nella casa dell’altro (o meglio, nel suo volto) pur restandone fisicamente separati costituisce un chiaro ribaltamento – in senso negativo – del programma neorealista. Quando il regista si accorge di questa contraddizione, e non la sviluppa in direzione sarcastica, il film raggiunge i suoi momenti migliori: lo sguardo si fa meno diretto e, con l’allontanarsi del soggetto ripreso con una frontalità accecante, si inizia a percepire la sua terza dimensione (la profondità di un essere umano).
(carlo chatrian)