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The Woodsman

Dopo dodici anni di prigione, Walter esce in libertà vigilata e si trasferisce in una grigia anonima cittadina di provincia. Trova lavoro in un deposito di legnami, dal figlio del suo precedente padrone; è un grande lavoratore e un abile artigiano e cerca di reinserirsi e di nascondere il motivo per cui ha scontato una così lunga pena. Purtroppo il crimine è uno dei più odiosi, si tratta di pedofilia, anche se attuata senza atti di estrema violenza, come talvolta accade. È come se, in quelle bambine avvicinate, Walter ricercasse sensazioni e turbamenti provati, quando era piccolo, con la sorellina minore; quella sorella che, ora sposata e madre, rifiuta di parlargli e fargli conoscere la nipote. Nella solitudine e nel disprezzo che lo circonda – ogni tanto viene visitato da un poliziotto sospettoso che lo insulta e lo fa sentire colpevole senza riscatto – unica luce è l’amore di una compagna di lavoro. Vickie è un tipo particolare, libera e indipendente, lo ama anche quando viene a sapere del suo segreto, certa che in Walter c’è qualcosa di buono che lo libererà dalle ossessioni. Anzi, raccontando di come da bambina, unica femmina con tre fratelli, ognuno di loro di lei avesse approfittato di lei, gli fa capire di come la sua «colpa» si annidi anche in complessi familiari apparentemente «normali». «Li odierai, allora» le chiede Walter. «Niente affatto, ora sono tre buoni padri di famiglia e li amo teneramente».

Accanto a questa parte di reinserimento psichico, che avviene sia tramite l’amore che tramite lo psicologo-psicanalista che l’ex-detenuto è obbligato a frequentare, il regista ne inserisce un’altra, più legata a moduli di storia a suspense. Perché Walter, che ha trovato un appartamento di fronte a una scuola elementare, sbirciando dalla finestra fors’anche per attrazione poco innocente, si accorge di un pedofilo che gira intorno ai piccolini offrendo caramelle e cercando di farli salire in macchina. Qui mi fermo, senza togliere al lettore che vorrà andare a vedersi il film il gusto di seguire l’evolversi della vicenda.

Ricavato da una pièce teatrale di Steven Fetcher, che insieme al regista, Nicole Kassel collabora alla sceneggiatura, il film ne conserva gli aspetti per la predominanza dei dialoghi, la drammatizzazione dialettica e l’uso della confessione liberatoria, anche se non manca una straordinaria ed efficace resa di esterni, come le scene sul posto di lavoro e quella, carica di tensione e di angoscia, con la bambina nel parco, fulcro nodale della storia.

Strilli pubblicitari accomunano questo film a
Mystic River
di Clint Eastwood, di cui però non possiede la varietà e la complessità drammatica, il cupo profondo pessimismo. Rischia anzi di sciupare la minuta e sottile analisi, evidenziata dalla straordinaria interpretazione di Bacon, offrendo un lieto fine troppo accomodante, troppo consolatorio e, infine, poco convincente. Tra i pregi del film, comunque insolito e coraggioso, una novità
politically uncorrect:
finalmente due neri, la segretaria della falegnameria e il poliziotto-custode, odiosissimi.
(piero gelli)