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The Call – Non rispondere

Un gruppo di amiche, studentesse universitarie, a Tokyo, un giorno cominciano a ricevere dai loro cellulari, prima una strana suoneria, poi un urlo disumano, infine un messaggio postdatato che indica alla proprietaria del telefono l’ora della sua morte. In poco tempo, tre ragazze muoiono nei modi più terrificanti e attorcigliati. La terza, inoltre, in maniera clamorosamente mediatica: durante una ripresa televisiva, quando un esorcista cerca inutilmente di liberarla dal supposto malocchio.

È impossibile proseguire oltre, in una vicenda in cui tutto succede e niente è chiaro: né chi sia a uccidere dall’oltretomba, né perché, né chi siano le poverette malcapitate tutte graziose e tutte uguali (oppure a noi occidentali così sembrano). Di fatto, il regista, che cerca di sostituire tutta la cianfrusaglia generica degli horror classici, aggiornandola alle ossessioni contemporanee, fa del cellullare lo metafora dell’ultima chiamata: è il display che ti annuncia
l’ora tua fatale.
Naturalmente, come in tutti i film che si rispettino, c’è la ragazza, ultima predestinata e il giovanotto che la protegge, che si amano e che alla fine riusciranno a risolvere il rebus.

Loro lo risolvono, ma non noi, che non riusciamo a capire assolutamente un tubo, neppure chi cavolo sia la bambina infernale, oltreché asmatica, tramite cui accadano simile efferatezze e perché tre povere diavole innocenti vengano così massacrate. Quale è il legame e il senso? Bisognerebbe poi chiedere al regista,
Takashi Miike
– già nominato dal
Time Magazine
tra i dieci migliori registi del momento (e non ci resta che sperare che il momento passi presto) – perché considerare l’asma una malattia diabolica e gli asmatici degli indemoniati. Alla fine, il
Takashi Miike
e il suo sceneggiatore devono aver capito di avere imbastito un guazzabuglio assolutamente incomprensibile e idiota, oltre che noioso, perché non riescono a comunicare il minimo soprassalto di paura, ed ecco che moltiplicano le urla esagitate e le figurazioni fantasmatiche: apparizioni di donne bruciate che si squamano, mani repellenti che agguantano, bocche sanguinolenti che sputano caramelle di ribes… Allora ripiegano sull’arma dell’ironia: nelle ultime scene non si deve capire dove finirà quel coltello che la protagonista ha in mano, mentre bacia il suo ragazzo, già coltellizzato prima, e sorride. Il tutto, poi, girato con sequenze così lunghe e protratte da far sembrare quelle di Angelopoulos uno spot. Da un po’ di tempo, registi incapaci di sorreggere un film per intero, dentro il genere prefisso o i generi prefissi e commisti, credono di risolverlo abilmente con la chiave dell’ambiguità, della citazione, dell’ammicco e dell’ironia. Troppo comodo.

(piero gelli)