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Tattoo

Marc Schrader è un giovane detective appena diplomatosi all’accademia di polizia. Lavorare non gli piace: meglio prendere qualche pasticca e ballare ai rave clandestini. Una retata condotta dai suoi stessi colleghi durante una di queste feste rischia però di rovinargli una carriera non ancora iniziata. Schrader si trova davanti a un bivio: accettare di collaborare con l’esperto detective Minks, impegnato in una personale crociata contro il mondo in cui sua figlia si è rifugiata dopo la morte della madre, oppure considerarsi un ex poliziotto. Scelta la prima soluzione, il giovane si impegna in una serie di indagini che portano alla luce un incredibile commercio di brandelli di pelle umana, appartenenti a persone che in passato si sono fatte tatuare da un abilissimo maestro giapponese.

Opera prima del tedesco Robert Schwentke, noto in patria come autore televisivo,
Tattoo
è un thriller per stomaci forti, in cui mutilazioni e cadaveri carbonizzati non vengono risparmiati allo spettatore dallo sguardo, a tratti compiaciuto, del regista. Le prime recensioni hanno parlato di risposta tedesca a
Seven
ma Schwentke ha precisato di essersi ispirato, piuttosto, a
Inferno
di Dario Argento e, in seconda battuta, a
Terrore dallo spazio profondo
di Philip Kaufman oltre che, più in generale, a molte pellicole americane degli anni Settanta i cui eroi erano personaggi dalla morale a dir poco ambigua. «L’unica regola è tornare a casa vivo la sera», dice Minks al suo giovane compagno. Tutto si può fare, purché serva ad assicurare alla giustizia il serial killer che sta costringendo agli straordinari il personale dell’obitorio. Girato in soli quaranta giorni e con un budget ridotto in una Berlino livida e spettrale, ben inquadrata dalla gelida fotografia di Jan Fehse,
Tattoo
mette in luce due ottimi attori: il giovane August Diehl e soprattutto Christian Redl, davvero convincente nel ruolo di un poliziotto che cerca nella sua professione il riscatto delle amarezze che la vita gli ha riservato.
(maurizio zoja)