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Sonatine

Nel 1993 passò a Cannes e vinse a Taormina, ma nessun distributore lo reputò degno di interesse. Critici che oggi lo esaltano lo bollarono come noioso. Poi, per fortuna, è arrivato il Leone d’oro a
Hana-bi
, e
L’estate di Kikujiro
ha avuto un suo pubblico.
Sonatine
si era visto con i sottotitoli su RAI 3, e adesso arriva su grande schermo (dove va gustato), doppiato. Non si può avere tutto dalla vita, ma l’opera numero 4 di «Beat» Takeshi rimane a tutt’oggi il suo capolavoro.

Dopo avere girato
Kids Return
, nel 1996, e in seguito a un incidente in moto quasi mortale, Kitano dichiarò che i suoi film da quel momento sarebbero stati dedicati a cercare il modo giusto di vivere e non quello di morire, come in precedenza.
Sonatine
apparterrebbe quindi a una prima fase nichilista, e se si paragona ad
Hana-bi
il controcanto sentimentale appare molto ristretto.
Sonatine
è infatti la storia di uno yakuza che si accorge di essere stato fregato dai suoi capi e decide di non aspettare la morte, ma di precederla. Eppure, in questa meditazione sulla morte, non c’è niente di tormentoso o di cupo.
Sonatine
è un film meravigliosamente solare. Non a caso è ambientato a Okinawa, isoletta nel sud del Giappone nota, oltre che per le basi americane, come località turistica, e sede di tradizioni folkloriche di cui nel film si vede un ironico assaggio. La vita langue, forse siamo fuori stagione, e il gangster Kitano – con i suoi tirapiedi più o meno inesperti – dopo un primo scontro con i mafiosi locali, aspetta ordini. Perde tempo sulla spiaggia e inventa modi di ammazzare il tempo. Roulette russa col trucco. Battaglie con fuochi d’artificio. Buche nella sabbia (Kitano non conosce il poeta Ernesto Ragazzoni, ma gli piacerebbe). Parodie dei combattimenti di sumo. Il segmento centrale del film è occupato quasi interamente da giochi (anche se di mezzo c’è un tentato stupro). La tragedia sta in agguato, ma viene annullata da uno spirito ludico e quietamente folle, infantile e surreale.

Poi, ovviamente, il sangue ricomincia a scorrere. Ma il modo in cui Kitano riprende la violenza è ugualmente sorprendente e anticonvenzionale. Non c’è l’enfasi barocca di John Woo, e neanche il pudore ellittico di Bresson. Nel cinema di Kitano le cose accadono in un attimo o durano troppo, e nel modo più imprevisto. Senza suspense, senza lasciarci il tempo di capire cosa sia successo. La morte è un lampo, ed è incomprensibile come la vita. Kitano regista non spende una parola di commento, ma conserva sempre un occhio stupito e attonito. E ogni evento acquista un peso che in un cinema convenzionale non avrebbe. Se questa non è catarsi… Aristotele, dall’Aldilà, benedice soddisfatto.
(alberto pezzotta)