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Shanghai Dreams

Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Un antico proverbio che ben si attaglia all’ultimo film di Wang Xiaoshuai, di cui ricordo Le biciclette di Pechino, vincitore nel 2001 del premio della giuria a Berlino. Questo Shanghai Dreams, a sua volta ha ricevuto quest’anno quello della giuria di Cannes. E le giurie internazionali, si sa, premiano spesso le buone intenzioni, soprattutto quando sono politicamente avanzate, parenetiche e di fondo consolatorie. Xiaoshuai aveva già dimostrato nei suoi precedenti lavori di guardare con ammirazione alla scuola del neorealismo italiano, più De Sica che non Rossellini. Ma l’asciuttezza e stringatezza neorealistica in questo film si riveste allo sguardo orientale del regista di compiaciuti formalismi: camera ferma per interminabili secondi, piani-sequenza di estenuata lentezza, come in Angelopoulos; solo che in quest’ultimo i lunghissimi piani sequenza sono comunque una personalissima cifra stilistica, in Xiaoshuai sono invece tentativi di caricare simbolicamente i gesti e fatti della quotidianità, col risultato di generare nello spettatore una progressiva smania e insofferenza.
Dunque: siamo nella Cina degli anni Ottanta, in una regione isolata del Nord-Ovest, precisamente nella Guyang. Qui, il governo comunista, temendo un conflitto con l’Unione Sovietica, negli anni Sessanta aveva costruito una «Terza linea di difesa», costringendo migliaia di operai e le loro famiglie a lasciare le grandi città come Shanghai e Pechino per stabilirsi in quell’entroterra industriale, scomodo e remoto. Quello che doveva essere un breve periodo di formazione divenne però un soggiorno quasi perenne; gli operai cittadini non riuscivano ad amalgamarsi con i nativi, sognavano di tornare in città come le tre sorelle cecoviane a Mosca. Ma i loro figli, nati e cresciuti in quella regione, non capivano le ragioni dei padri. Il conflitto è esemplificato qui dalla giovane Quing Hong (una bravissima e dolcissima Gao Yuan Yuan, già interprete de Le biciclette di Pechino), in lotta con un padre autoritario e ottuso. La ragazza ha un’amica del cuore e un giovane operaio locale che la ama, senza speranza perché osteggiato dal padre di lei e dalla ragazza stessa che non osa disubbidire. La storia finirà in una tragedia, mentre le famiglie delle due ragazze riescono a tornare di nascosto a Shanghai, quando una nuova politica di riforme negli anni Ottanta allentò le imposizioni dittatoriali. Ed è, quest’ultima, la parte più emozionante del film, anzi l’unica. Perché prima il regista, implacabile, ci ha fatti addormentare con lunghe carrellate su un paesaggio che sembra Quarto Oggiaro, discussioni noiosissime in famiglia e tra compagni e camera fissa sulla nuca della protagonista, che studia, cuce, versa il thè ai convitati, tenta il suicidio e si fa violentare dal suo «pischello», a cui sarebbe bastata una scarpata in testa – quelle scarpe che lui le regala – per farlo desistere. Anche gli stupri dovrebbero avere una loro realistica credibilità. Da un’intervista a Wang Xiaoshuai si evince che il film è in gran parte autobiografico: lui è nato lì negli anni Sessanta e i suoi genitori riuscirono a tornare a Shanghai dopo vent’anni; suoi quindi i ricordi e la nostalgia. Che purtroppo nel film diventano compiaciuti formalismi. (piero gelli)