S

Shall We Dance?

Che cosa spinge un avvocato di mezza età, un professionista di successo, con una moglie che ama, due figli adolescenti che non gli danno preoccupazioni, un bell’appartamento nel centro di Chicago e una villa in campagna, a cercare altrove una ragione di vita? La noia? Il tedio di una serenità troppo raggiunta e quindi dai processi iterativi? Tutto nasce per caso quando, rientrando con la sopraelevata a casa, la sera, nota un palazzone tra il liberty e il tudor, fatisciente e vagamente sinistro. Chicago ne è piena. Ma al secondo piano del palazzo, al di là di un’insegna che indica una scuola di danza, l’avvocato (Richard Gere) vede dietro il vetro della finestra una bellissima ragazza latina dallo sguardo triste.
Ecco, incomincia così il film, con l’ennesima riproposta della donna del mistero, che dalla narrativa romantica arriva al grande cinema degli anni Quaranta e Cinquanta. Attratto da quella misteriosa figura l’avvocato si iscrive a un corso di ballo per principianti, imparerà il walzer, la rumba, la beguine, il cha-cha-cha con crescente passione, si affezionerà ai nuovi coloriti amici, tra cui anche un collega di ufficio allontanandosi sempre più dalla famiglia.
La moglie (Susan Sarandon) si accorge ben presto dei sospetti mutamenti del coniuge: torna a casa sempre più tardi e accampa scuse, le sue camicie hanno strani profumi. Ricorre a un investigatore che le dice la verità: l’uomo non la tradisce, neppure con la bellissima ballerina latina (una stupenda Jennifer Lopez), frequenta solo una scuola di ballo. La sorpresa non è meno amara: perché il marito ha sentito il bisogno di quel diversivo, di tenerne all’oscuro lei e i figli? Che cosa non funziona nel loro menage? Mi fermo, non racconto oltre, ché la fine è scontata, trattandosi di una commedia. Ma rileggendo quanto sopra, mi accorgo di aver parlato di un altro film, pur raccontando esattamente questo. Ed è un merito in più della regia, dietro parametri di genere così collaudati e citati: quello di partire con atmosfere torbide, vagamente alla Tennessee Williams, con tutta la sua galleria di perdenti. La scuola di ballo è al limite del fallimento, è un ricettacolo di casi patologici, la direttrice e proprietaria è un’anziana ballerina, al limite dell’alcolismo, la clientela è scarsa. L’avvocato ha come compagni di corso un giovane macho, che poi si rivelerà gay, e un ragazzone nero, grasso e sudoroso. Altrettanto pittoresche sono le insegnanti di corso, a parte la bella ispanica che se ne sta misteriosamente da parte e non dà confidenze. Su questa base commista di esotico e patetico, ma cambiando immediatamente registro, il film si muove con estrema grazia e levità, quella levità che viene da lontano, dalle commedie di Lubitsch, Hawks, Minelli, con il loro perfetto artigianato, grazie anche all’aiuto di una divertente e allegrissima colonna musicale in cui risuonano ritmi e canzoni ben note.
Così, il poco significativo regista Peter Chelsom – ricordo tuttavia Il commediante (1994) con Jerry Lewis e una curiosa commedia, Serendipity (2001) – fornito di una sceneggiatura calibratissima, riesce a disegnare felicemente tutta una serie di caratteri, di personaggi azzeccatissimi per rilievo psicologico ed esplosiva comicità, che costituiscono la forza del film, e nello stesso tempo a contenere entro limiti accettabili il melenso sentimentalismo della storia portante. Insomma, ci si diverte, grazie anche a tutti gli interpreti, davvero straordinari. Perfino – ed è una sorpresa – il maturato Richard Gere, qui in un ruolo che in altri tempi Gary Grant ha magnificamente variato. (piero gelli)