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Seom – L’isola

Il rifiuto pubblico di fronte all’esplicitazione della carne e della sua animalità fa sempre paura e inquieta più di qualsiasi sequenza di violenza su animali. È lo spettatore veneziano che fa venire la pelle d’oca per come si ostina a coprirsi gli occhi quando è messo a confronto con gli istinti più bassi dell’uomo e della donna. L’accoglienza a
Seom
ricorda un po’ quella riservata l’anno scorso a
Bugie
: come se si debba venire a Venezia soltanto per gli Ivory del caso.
Seom
ha il coraggio di mostrare gli stimoli bestiali e la necessità del dolore a cui si deve arrivare per coronare un’unione, per raccontare e vivere una storia, per cibarsi d’amore. Altri ne hanno già discusso, ma fa sempre bene ricordarlo. Una donna vive sull’acqua affittando casette galleggianti a pescatori e coppiette. Intraprende quindi una relazione con un uomo fatta di sangue e mutilazioni. Sorprendente per come affronta lo svolgersi inarrestabile e imprescindibile della passione e dei relativi meccanismi corporali, prima che mentali,
Seom
spiazza per la lucidità della messinscena del castigo inflitto sulla propria persona e sugli altri: non concilia né rasserena, anzi sconvolge per la sicurezza con cui al termine impone davvero il conseguimento del rapporto. La coerenza degli intenti lo fa quasi apparire fuori dal tempo e ancora più insopportabile agli ingessati e stitici, che avrebbero certamente preferito una condanna (non comprendendo, tra il resto, che sotto tutto scorre già la condanna alla solitudine estrema e irriducibile). Allontanare lo sguardo davanti alle sequenze limite sarebbe come rinunciare all’esistenza e farne vincere la noia. Chi conosce Nagisa Oshima e ha visto qualcosa di Alejandro Jodorowsky (che mi è venuto in mente alla sequenza conclusiva) sa di cosa si sta parlando.
(pier maria bocchi)