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Samia

Samia è il nome di una giovane algerina nata e cresciuta a Marsiglia, una
beurette
, come titola il romanzo di Soraya Nini da cui è tratto il film (
Ils disent que je suis une beurette
). Adolescente in una famiglia numerosa, Samia è costretta tra una società poco incline a integrare realmente l’immigrazione maghrebina e un nucleo famigliare ancor meno disposto a cedere alle pressioni di una cultura postindustriale. Nello scontro in atto le donne del film sono la posta in gioco. È lo spazio domestico il confine invalicabile, intorno al quale ruotano buona parte dei conflitti drammatici del racconto: aprirsi o no? Aprire le gambe, al ragazzo o al ginecologo, o no? E soprattutto, chi lo deve decidere?

Faucon sposa un realismo della messa in scena fatto di piccoli nuclei drammatici, frammentazione delle scene, personaggi dimessi, memore del Rohmer evocato nella prima sequenza con la presenza di Marie Rivière. In questa intenzione sicuramente gioca un ruolo importante la lingua, che scivola intermittente dal francese all’arabo e viceversa, anche all’interno di singole frasi. E tuttavia, questo silenzio stilistico talvolta non giova al film, che sceglie delle strade senza portarle in fondo: lo spazio domestico, potenziale palcoscenico drammatico di enorme efficacia, rimane luogo anodino; l’uso del piano-sequenza, a volte adottato, raramente sembra sposare una precisa funzione; la naturale forza degli interpreti viene ridotta dai tempi brevi delle inquadrature. Rimane la spontanea energia di un bozzetto preciso, l’intuito di uno schizzo neppure ipotizzabile nella produzione cinematografica italiana. La nostra cultura blatera di apertura e comunicazione. Qui l’apertura è tematizzata come conflitto. Qual essa è.
(francesco pitassio)