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Regole d’onore

William Friedkin è destinato a essere un regista controverso. Dopo essere stato il cineasta più odiato dalla critica di sinistra degli anni Settanta (forse solo Clint Eastwood sì è beccato la stessa quantità di insulti: basta ricordare le accuse di propaganda cattolica rovesciate su
L’esorcista
o quelle di fascismo per
Il braccio violento della legge
), Friedkin, con il declinare dei Seventies e con il cinema americano sempre più anemico, è diventato (inevitabilmente) un autore di culto. In questo senso,
Vivere e morire a Los Angeles
ha sancito la canonizzazione cinefila attesa da molti. Ma i seguenti
L’albero del male
e
Jade
sono stati trascurati dai più.
Regole d’onore
giunge nelle nostre sale quando la crisi in Medio Oriente sembra avviata verso un terribile punto di non ritorno. Friedkin, da straordinario moralista cinematografico qual è, licenzia un film terribile, feroce e visionario, che si offre come la più lucida disamina di una metafisica del Male mai osata dal cinema americano.

Ferocemente reazionario (già, Friedkin è un repubblicano…), decisamente antiarabo (accuse di filosionismo si sono levate durante la proiezione per la stampa),
Regole d’onore
giustappone – secondo un’inesorabile logica fulleriana – mondi in collisione. Riuscendo nel miracolo di non trarre conclusioni politiche dai suoi pregiudizi ideologici, Friedkin realizza, grazie al suo folle nichilismo, una pellicola che mette in luce tutto l’orrore e il prezzo pagato per tenere in piedi il cosiddetto «new world order». Talmente schierato da potersi permettere il lusso di far saltare in aria bambini, donne e anziani, il regista fissa il suo sguardo nell’orrore e non lo ritrae. Il marine interpretato da Samuel L. Jackson non è un esaltato: è un marine, l’americano per eccellenza. Le sue azioni sono il risultato di quella medesima ideologia, che impone il saluto alla bandiera e che stabilisce le «regole d’ingaggio».

Provocatoriamente, Friedkin si schiera con il suo marine e paradossalmente rivela il cuore di tenebra di un’America malata di testosterone patriottico. Non riconoscere che
Regole d’onore
è molto più utile di qualsiasi sciocchezza spielberghiana attualmente in circolazione significa non voler accettare il grado di complessità di un film forte e necessario. Friedkin, infatti, compie l’impresa di realizzare un’opera infinitamente complessa, che ci restituisce alla nostra libertà critica con tutto il peso che comporta il muoversi in quello che non è esattamente il migliore dei mondi possibili. Ma per chi ama i compitini preconfezionati come
I cento passi
e
Salvate il soldato Ryan
, con buoni e cattivi distribuiti secondo i canoni vigenti del politically correct, lo scandalo è garantito.
(giona a. nazzaro)