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Radio America

A ottantuno anni Robert Altman gira uno dei suoi film più belli, accorati e nostalgici. E se la carica vitale e satirica che nel 1975 riversava in quell’altro suo capolavoro, Nashville, che a questo rimanda, si è smussata con gli anni, il regista ha saputo compensarla con un sapiente dosaggio di umorismo rivestito di un’ affettuosa, tenera e un po’ lugubre malinconia.
La storia è stata scritta da Garrison Keilor, ideatore e presentatore di un celebre programma radiofonico, A Prairie Home Companion, che negli Stati Uniti viene trasmesso da oltre trent’anni e viene seguito ogni settimana da oltre quattro milioni di ascoltatori. Altman e Keilor, che nel film recita se stesso, hanno immaginato l’ultima serata del fortunato radioshow, prevedendo l’estinzione di un genere sotto i duri colpi del mercato dominato dalla televisione. Trasmesso da una cittadina del Minnesota, St. Paul, nell’amato Midwest del regista, dentro il Fitzgerald Theatre (Scott Fitzgerald è nato proprio a St. Paul), quasi un reperto arcaico degli anni Trenta, lo show vive la sua ultima serata in un’atmosfera di schizofrenica e patetica sopravvivenza, come in certe pièce d’antan di Tennessee Williams.
D’altra parte, tutto, nel film, è d’altri tempi, dichiaratamente, spudoratamente nostalgico, a partire dalle cantanti country alle barzellette grasse dei cowboy singer, ai vetusti messaggi pubblicitari. Sfilano davanti al microfono, applauditi in sala da un pubblico fedele, personaggi teneri e scombinati, superstiti di un modo di fare spettacolo che in Italia a suo tempo solo il grande Fellini seppe glorificare. È la stessa tenera crudeltà, lo stesso sguardo incantato che unisce da distanze siderali il regista italiano e Altman. Il quale imbastisce la sua elegia, racchiusa dentro due inquadrature alla Hopper, come un affresco corale, ricco di musica country e di numeri a parte, alternando il palcoscenico con il dietro le quinte, nell’ultima sera in cui tutto accade, nell’attesa dei «tagliatori di teste» che trasformeranno il teatro in un parcheggio, e nell’illusione dei suoi protagonisti che tutto possa andare avanti come se il mondo non cambiasse, quasi a voler fermare la morte.
Che invece puntualmente arriva, nelle vesti di una bionda chandleriana (Virginia Madsen) a significare l’angelo che annuncia, conforta e traghetta, e a dare alla vicenda una tornure da ghost-story, tra Renè Clair e Frank Capra, ma anche un po’ per celia e un po’ per non morire, per omaggiare anche il cinema di un’epoca, oltre al varietà e alla musica. Nessun regista sa muovere la macchina da presa come Altman, animare di mille sfumature le scene, dar corpo in poche sequenze a una vicenda e a un personaggio. Certo ci vuole anche la meravigliosa galleria di interpreti a suo servizio: da uno straordinario Kevin Kline nel ruolo di Guy Noir, addetto alla sicurezza del teatro, a Tommy Lee Jones in quello del gelido manager incaricato di chiuderlo, dalle meravigliose Meryl Streep e Lily Tomlin nelle parti di due sorelle residuo di un gruppo country di quattro a Woody Harrelson e John C. Reilly in quelle dei due sboccati cowboy singer. Insomma, si ride e ci si commuove in questo tardo grande Altman, che canta la sua America e la sua cultura popolare, come un mondo chiuso, una civiltà finita nel retaggio dei ricordi, come le creature smarrite e perdute che ne animarono quegli ultimi giorni. (piero gelli)