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Qandahar

Il film è la cronaca del viaggio di una donna afgana emigrata in Canada che vuole raggiungere la sorella prima che questa si suicidi nella città di Qandahar.

Makhmalbaf e l’apologo, nella forma di un viaggio in prima persona, attraverso un territorio, una cultura e una lingua. Le sue immagini però appaiono immobili, già arrivate a destinazione, già concepite e concluse, prima di essere riprese. Lo svolgimento pamphlettistico del film del regista iraniano segue uno schema decisamente troppo rigido, benché animato da un energico vigore.

Riguardo alla situazione delle donne in Afganistan, in balia dell’intransigenza degli uomini e della brutalità senz’occhi delle mine, Makhmalbaf appare decisamente arrabbiato. Al punto di non sfumare le sue inquadrature e il loro sviluppo. Questo atteggiamento di scontro frontale provoca due risultati: quando va bene
Qandahar
sviluppa immagini-metafora di forte impatto (le protesi di gambe che piovono dal cielo), quando va male l’idea e la sua rigida impalcatura teorica finiscono per sommergere tutto il resto.

Così, pur partendo da un tessuto documentaristico forte, il regista finisce per nuocere al suo stesso intento, confermandosi soltanto un grande artefice di scenografie. Ciò che manca agli ultimi film di Makhmalbaf è la profondità del non detto, l’incommensurabilità di una vita che non si riduce a parola o a proclama. Le inquadrature di
Qandahar
risultano invece bidimensionali. Ripetono quel duello che il regista ha ingaggiato con il soggetto. Duello impari; perché se Kiarostami può essere tacciato, a volte, di ambiguità, è proprio l’assoluta assenza di questa componente che manca ai film di Makhmalbaf. Quella che li riduce a sterili trattati per immagini.
(carlo chatrian)