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Pensilina / Platform

Come un viaggio a ritroso. Indietro nel tempo, nella cultura e nella geografia del proprio paese. Il film di Jia Zhangke come prima virtù ha quella di incarnarsi in un’epoca, in un gruppo di persone, in un insieme di luoghi. Fin dalla prima inquadratura – un palcoscenico di teatro dove viene presentata una pièce didascalico-politica – si comprende che le superfici sono in scena per essere solcate (un po’ come fanno gli attori, che mimano un’immaginaria piroga-barca). Si sente che il film farà di tutto per raccontare la profondità di quell’inquadratura bidimensionale. Attraverso i viaggi fin nella provincia più lontana della Cina (quella prossima alla Mongolia),
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scopre la vita di un gruppo di giovani attori teatrali all’alba degli anni Ottanta, ossia in piena rivoluzione culturale. Jia Zhangke racconta le loro evoluzioni a contatto con un mondo in repentina metamorfosi (dalla pièce su Mao Zedong si arriva alla rockmusic e alla breakdance), le loro risposte ai reciproci cambiamenti (capigliature, abbigliamenti, abitudini e atteggiamenti segnano e seguono il passare delle mode), ma anche il loro interagire con paesaggi sempre più impassibili alle mutazioni dell’umano. L’aggiornarsi dell’uomo alla lezione della contemporaneità fa i conti con il resistere della tradizione, dell’ignoranza, della legge del passato in un confronto che non è dato come opposizione tra Bene e Male, ma come scambio e struttura fondante della civiltà. I fortunati viaggiatori culturali vedono sfilare davanti ai loro occhi scenari immutabili, uomini fissi e condannati al loro stato. Il che si può riassumere con la parola «mancanza di libertà». La stessa dialettica – cambiamento e persistenza – sta alla base della messa in scena del film. Inquadrature fisse e improvvise panoramiche avvolgenti. Il paesaggio di
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molto spesso è dato in partenza (con una rigidità che ricorda il taiwanese Hou Hsiao-hsien); a volte però la macchina da presa inizia a muoversi, come per incanto. Si scopre un oggetto del desiderio, una casa, un orizzonte, uno scenario. Anche questo è un modo per rivelare le pulsioni dei personaggi. Ancora un viaggio, nell’intimo della storia raccontata. In fondo tutte le superfici (scene urbane, paesaggi, palcoscenici, strade e interni di case) rivelano una profonda aderenza con chi le abita o anche solo le solca. Che sia viaggiatore o stanziale, l’uomo si adatta all’ambiente, lo modella. È senz’altro il risultato del piano-sequenza e del lavoro sulla narrazione (con ellissi e stacchi perfettamente calibrati) questo senso del tempo come realtà vissuta.
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, come tutti i grandi film, assembla un insieme di elementi complessi per arrivare ad un risultato che sembra farsi da sé. Come in Eustache, come in Garrel, come in Edward Yang, dà l’illusione di una porzione di vita che si svolge davanti a noi. Con le sue incertezze, le sue incongruità, le sue contraddizioni, le sue estasi e le sue paure.
(carlo chatrian)