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Pelle d’angelo

Una ragazza, Angèle, lascia la sua famiglia e la campagna per andare a lavorare come cameriera in casa di due ricchi borghesi della vicina cittadina. Un giorno incontra in paese Grégoire, un uomo silenzioso e dall’aria tormentata, con cui trascorre la sua prima e unica notte d’amore. Angèle gli offrirà tutto il suo cuore mentre Grégoire troverà nella ragazza solo consolazione dopo la morte della madre per il cui funerale è tornato nel paese d’origine. Lui non vuole più rivedere né la ragazza né la città di provincia in cui ha trascorso la sua infelice infanzia. Il mattino seguente i loro destini si separano ma in entrambi resterà per sempre il segno indelebile di quell’incontro. L’uomo che sino a quel momento aveva vissuto nell’apparente rimozione del suo passato sarà ossessionato dall’immagine di Angèle, mentre la ragazza coltiverà per sempre l’illusione di un amore non corrisposto. Ma alcune coincidenze dettate dal caso li faranno rincontrare.

Protagonista di pellicole come
Cyrano de Bergerac
di Jean-Paul Rappeneau e
Il viaggio di Capitan Fracassa
di Ettore Scola, Vincent Perez debutta alla regia con una storia che sembra ripresa da un romanzo d’appendice, caratterizzata da dialoghi scarni e improbabili. Un film privo di approfondimenti psicologici nei confronti dei personaggi protagonisti, tutti delineati con inquadrature statiche (non a caso Perez è fotografo prima che attore e regista) in alcuni momenti (bisogna ammetterlo) di una certa compiutezza formale. Ma non si sta parlando di fotografia. La pochezza dell’assunto e della messinscena non viene compensata dall’interpretazione del figlio d’arte Guillaume Depardieu, che veste i panni di un Gregoire dalla lacrima facile e del cui tormento non si intuisce la causa e dalla sceneggiatrice e interprete del film nonché compagna nella vita del regista, Karine Silla. Di qualche valore invece il placido ovale e gli occhi senza fondo della debuttante Morgan Moré, cui è affidato il ruolo della protagonista, una ragazza talmente fuori da ogni misura e tempo da risultare davvero poco credibile. La vediamo darsi al primo venuto, svolgere lavori umili senza lamentarsi mai, finire in carcere per un delitto che non ha commesso e infine, una volta scarcerata, scegliere di vivere tra le monache di un convento per coltivarne l’orto. Un ruolo difficile da sostenere proprio per la poca credibilità che lo caratterizza. Valeria Bruni Tedeschi nel cammeo della sensibile avvocatessa lascia una traccia indelebile, come sempre. Ma si tratta di livelli diversi di abilità interpretativa. A chiudere il tutto un finale che vuole essere spiazzante ma che rientra nella logica del precostituito schema romanzesco cui è improntata tutta la pellicola. Permangono forti dubbi sulla natura di tali prodotti che appaiono troppo spesso il risultato di capricci divistici più che il frutto di un’operazione necessaria e basilare nel cinema, la regia.
(emilia de bartolomeis)