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Non desiderare la donna d’altri

La vita del maggiore Michael Lundberg (Ulrich Thomsen) sembra avere un buon equilibrio: è un ufficiale rispettato, ha una moglie che adora, Sarah (Connie Nielsen), e due bambine deliziose. Tutto l’opposto è il fratello minore Jannik (Nikolaj Lie Kaas), ribelle, reduce dalla galera, in rotta col padre e con ogni regola. Ma Michael l’ha sempre protetto e, dovendo partire nel contingente Onu per l’Afghanistan, vuole lasciare le cose a posto. Pochi giorni dopo l’arrivo, il suo elicottero viene abbattuto e lui fatto prigioniero dai talebani. In patria lo danno per morto, e Jannik, ferito dai genitori che piangono il solo figlio amato, trova nella vicinanza alla famiglia del fratello la molla per uscire dal suo disfattismo: così, lui scopre che la cognata non è quella borghese perbenista che credeva, e lei che il cognato non è solo un ubriacone fallito. L’attrazione, trattenuta e imbarazzata, sfocia in un bacio, ma c’è ben altro in ballo, come l’affetto crescente delle nipoti per quello zio giocherellone così diverso dal padre metodico e prevedibile.
Intanto la prigionia scardina tutti gli equilibri di Michael; liberato dagli americani torna a casa ma non è più lo stesso perché per sopravvivere si è macchiato di una colpa orrenda che non sa perdonarsi. Le figlie temono i suoi sbalzi umorali, la moglie non riesce a penetrare il suo muro di silenzio, lui si sente estraneo al mondo che ha lasciato e alla famiglia e la tragedia esplode quando si convince del tradimento della moglie. 
C’è del marcio in Danimarca, potremmo dire con Shakespeare. Questo sembra dirci (o almeno suggerirci) l’ultimo lavoro di Susanne Bier, interamente made in Denmark e premiato dal pubblico del Sundance Festival. La sceneggiatura (opera della regista e di Anders Thomas Jensen) eredita la solidità psicologica e d’impianto dell’acclamato Open Hearts del 2002, con l’aggiunta però di un pessimismo di fondo, non risolto e controverso, migliorativo rispetto alla pellicola precedente. Lo stile, simil Dogma ma con moderazione, è fatto di dettagli insistiti su visi e occhi (specie del protagonista, per rendere più tangibile il suo estraniamento), di brevi riprese in esterni, impersonali e fredde, contrapposte a lunghe sequenze in interni lievemente claustrofobiche, con una fotografia appena desaturata per sottolineare la cupezza boreale, distante, che scorre in tutto il film. Non tutto sembra essere al suo posto, vuoi per certe alternanze di ritmo, vuoi per i tempi di svolta dei personaggi (troppo breve, ad esempio, è l’intervallo tra la Sarah che detesta Jannik e quella che lo bacia). Ma se si riesce a superare il «disagio» dell’impatto (quello di un’opera impenetrabile, restia a svelarsi, o che lo spettatore non riesce a tradurre) si deve ammettere che il film «sedimenta» proprio grazie al suo non-detto, a quei fugaci dettagli che diventano ellissi inconsce che lo spettatore stesso intuisce e viene spinto a riempire: Jannik proverà a conquistare Sarah o rinuncerà per sempre? e lei, chiarito che non stima poi tanto il marito, lo assisterà nel suo recupero con amore e compassione per la scoperta debolezza di lui? Il finale, poi, che s’apre con la confessione di Michael, porterà al perdono o all’inizio di un dramma più grande? è in questa complessità psicologica, che non cerca consolazioni e lascia le questioni aperte, che va riconosciuta la maturazione della Bier, una complessità prudente, forse non spinta alle estreme conseguenze, ma coraggiosamente pessimista perché l’unica morale che offre è che gli uomini sono isole incomunicabili, soli, vili e deboli. (salvatore vitellino)