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Nemmeno il destino

Tre amici in età adolescenziale condividono scuola e tempo libero, comprese le sfighe tipiche di chi è cresciuto nella periferia di una città post-industriale (Torino), decadente e apparentemente priva di prospettive. Ale
(Mauro Cordella),
Ferdi
(Fabrizio Nicastro)
e Toni
(Giuseppe Sanna)
sono tenuti insieme da un legame ancor più speciale e vincolante: quello di provenire da famiglie disgregate o inesistenti. Sono «problematici», per usare un termine caro agli educatori. Il primo a lasciare misteriosamente il trio è Toni, estroverso e sovrappeso ma in realtà roso come gli altri dall’ansia di un futuro apparentemente già scritto. Poi sarà la volta di Ferdi, sensibile e perciò schiacciato dal destino del padre ex operaio, disoccupato e alcolizzato, e della madre, che li ha abbandonati. Il protagonista del film, Ale, cerca di resistere come può alla perdita dei due compagni, ma quando scopre il terribile segreto che ha reso squilibrata la madre, cresciuta in un collegio di suore, lascia sfogare la rabbia in un impeto distruttivo. Cercherà di venirne fuori, spedito dal giudice minorile in una scalcinata comunità di recupero diretta da Lorenzo
(Stefano Cassetti).
La strada per la maturità, passa dai monti…

Gaglianone è un giovane e bravo regista cresciuto a Torino. È uno che – come si dice – ha studiato. E si vede. Pure troppo, a nostro avviso. Tratta da un romanzo del mestrino Gianfranco Bettin (e perciò originariamente ambientata a Marghera) e intitolata come una famosa canzone di Mina – che ricorre nel canto allucinato della madre del protagonista – la vicenda di Ale, Ferdi e Toni è quella di tre figli delle colpe. Le colpe dei genitori, innanzitutto. Che però sono pure loro vittime: del lavoro che uccide, di abusi sessuali inconfessabili, di semplice ignoranza.

Il regista, sorretto dalla competenza del direttore della fotografia
Gherardo Gossi,
affronta con piglio sperimentale questo atto di accusa contro la società, che marginalizza e abbandona i suoi figli all’arbitrio del destino. Il film, si divide così tra riuscite, a tratti godibili, descrizioni dell’universo giovanile e sofferte riprese, tecnicamente apprezzabili, che puntano a evidenziare il dolore, la sofferenza, lo straniamento dei personaggi di fronte alla vita che è toccata loro in sorte. È evidente il proposito di Gaglianone di sollecitare lo spettatore, disturbarlo e quindi calarlo nel denso liquame pasoliniano che impregna i pori e soffoca lentamente i protagonisti del film.

Obiettivo centrato. Ma è proprio questo il limite – non artistico ma comunicativo – della pellicola. Il regista che aveva affrontato con originalità la memoria resistenziale ne

I nostri anni
– il suo primo lungometraggio – sa come provocare lo spettatore, disturbarlo con immagini sovra o sottoesposte, con doppie esposizioni, con frasi incomprensibili pronunziate autisticamente che si sovrappongono ai pensieri, con riprese smozzicate e fuori fuoco. Il risultato è un film solo a tratti comprensibile, velato dall’ansia di dimostrare competenza, appesantito dalla ricerca di un messaggio che in realtà è chiaro sin dall’inizio. Siamo insomma di fronte al limite del miglior cinema italiano: quello di non essere fatto per essere visto.

(enzo fragassi)