M

My Generation

Woodstock: il nome evoca gloriosi scenari. Anziché scavare nella memoria di un evento focale per la controcultura del ‘68, Barbara Kopple segue l’evolversi del mito attraverso le sue recenti ripetizioni. Woodstock ‘69, Woodstock ‘94 e Woodstock ‘99: ce ne sarebbe per parlare di de-generazione, ma la documentarista lascia da parte il suo spirito acido per viaggiare in mezzo alla folla. Il risultato è un film estremamente sfaccettato, illuminante tanto sulla commercializzazione della libertà (con il passare delle edizioni, per garantire sicurezza e migliori servizi, il raduno appare sempre più confinato in una sorta di bunker) quanto sulle risposte dei giovani a questo desiderio di aggregazione. Forse la controcultura non esiste più, forse è diventata strumento strategico nelle mani di chi governa, forse i giovani sono più scafati (le donne si fanno fotografare nude in appositi stand); certo la musica ha accelerato i propri ritmi, e sono cambiati volti e costumi. Ma tutto questo, di fronte all’imperioso desiderio di divertirsi, cade in secondo piano. Certo talvolta affiora qualche nostalgia, un’acre tristezza penetra quando la macchina da presa fa il giro dei nuovi stand multimediali dove i solitari giocatori/navigatori spopolano; resta però forte l’urgenza con cui i giovani, nonostante controlli, prezzi da furto, caldo insopportabile e code chilometriche, esprimono se stessi. A Woodstock nelle tre edizioni è transitato quasi un milione di persone. Si potrebbe formare una piccola nazione, con le proprie leggi, i propri costumi, la propria immagine. Da questo punto di vista
My Generation
è la storia di un’utopia. Una contraddizione vivente, che si rinnova. «È bellissimo ed è brutto», annota uno dei commenti più acuti. C’è Michael Lang, artefice della saga, eterno giovane che si preoccupa di come ripetere l’evento in maniera sempre più calibrata e redditizia. Ci sono i musicisti che, qui più che altrove, si preoccupano di comunicare un’immagine in musica. E soprattutto ci sono giovani e meno giovani che esprimono la propria immagine (che siano hippie o appartengano alla X-Generation). Il pubblico di Woodstock è il vero soggetto del film. Attraverso risposte, critiche, apprezzamenti; attraverso azioni, esibizioni, danze e tuffi nel fango. Musica, parole, gesti si succedono nel tratteggiare una situazione assai articolata. In questo Barbara Kopple mostra tutta la sua abilità di montatrice: creando sottili ed efficaci leit-motiv (quello del fango è uno dei più azzeccati), contraddicendo l’assunto precedente quando troppo categorico, accostando le epoche e i cantanti, giocando sull’emozione che ammanta ogni ricordo quando viene ritrovato (Joe Cocker «prima e dopo»; Jimi Hendrix e la sua chitarra ululante di rabbia; Janis Joplin e il suo «Try a Little Harder»),
My Generation
trova un equilibrio tutto suo. Ci piace pensare che il progetto di Kopple fosse nato – come spesso avviene – da un intento di feroce critica nei confronti della gestione commerciale dell’evento. Il film conserva in parte questo sguardo acre e tuttavia sembra che l’incontro con il pubblico abbia spiazzato questa posizione. L’immensa folla di Woodstock è qualcosa che supera ogni tentativo di omologazione e di categoria. La felicità è una cosa impalpabile, ma abbastanza forte da resistere al tempo e alle sue degenerazioni e presentarsi ogni volta come se fosse nuova.
(carlo chatrian)