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Monster

Alla fine della sua straordinaria performance come serial killer, si dice che Charlize Theron abbia dichiarato: «quando tutti ti fanno sentire un mostro, finisci per diventarlo», quasi a sottolineare la sua identificazione col personaggio rappresentato, un’immedesimazione che ha del prodigioso ma ne costituisce anche il limite. Il film racconta la storia vera di Aileen Wuornos, una prostituta statunitense che tra il 1989 e il 1990 ha ucciso sette clienti sempre con la sua pistola, una calibro 22. E se il primo, l’omicidio di un elettricista sadico, fu un atto di difesa, gli altri rappresentano invece una schizofrenica coazione a ripetere di chi è ormai in preda di un raptus, liberatorio e vendicatorio insieme. La Wuornos fu giustiziata in Florida nel 2002 con un’iniezione letale perché la perizia psichiatrica l’aveva ritenuta perfettamente sana di mente.
Nel film la voce fuori campo della protagonista sintetizza le tappe di un’esistenza votata al fallimento senza riscatto, sia per le avverse contingenze (ancora più atroci nella realtà di quello che il personaggio racconta), sia per i congeniti limiti della donna afflitta da una paranoica ingenuità. Contrariamente a David Grieco, che nel suo Evilenko sceglie improvvidamente la via della soluzione creativa alla Hannibal, la regista Patty Jenkins si attiene in modo più rigoroso ai documenti e costruisce attorno al suo personaggio un film on the road che dapprima fa pensare a Thelma&Louise di Ridley Scott, per il rapporto e la fuga con l’amica Tyria, e lo chiude dentro l’ultimo anno di libertà della donna, tra i suoi delitti e la dedizione cieca alla ragazzina lesbica, unico amore-riscatto della sua vita, la quale finirà per contribuire fattivamente alla sua condanna.
Jenkins è bravissima nel non concedere tregua allo spettatore nel susseguirsi di squallidi interni ed esterni, tra periferie degradate, tristi motel, luride caffetterie, così come è attenta a giustificare psicologicamente azioni e comportamenti della sua protagonista, dal primo omicidio, compiuto per legittima difesa, agli altri, la cui motivazione è di natura psicopatica. La regista alterna abilmente alla violenza dei delitti il rapporto quotidiano tra le due donne in fuga. E se la Theron è straordinaria nel costruire il crescere paranoico del suo personaggio e insieme la sua ingenuità esistenziale e sentimentale – interpretazione del resto avvalorata da numerosi premi internazionali – Christina Ricci non è da meno e forse supera addirittura la collega nel disegnare la sua Tyria, candida e perversa, giocandola tutta per sottolineature, con occhi tondi e sgranati che raccontano lo stupore e l’inganno.
Parlavo, all’inizio, di un limite del film. La Jenkins, preoccupata della credibilità psicologica di un personaggio così fuori norma, gli costruisce intorno un eccesso di parole, fuori campo e per monologhi, un verbillage ossessivo che mimando la latente e presente paranoia finisce per danneggiare la forza e la violenza visiva del film. Come se la regista non avesse fiducia nella persuasività silente delle immagini e le soffocasse in una rete di spiegazioni verbali. Oscar alla Theron -anche Orso d’Argento a Berlino e vincitrice di un Golden Globe. (piero gelli)