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Minority Report

Washington 2054. La Pre-Crime, unità speciale del Dipartimento della Giustizia, è in grado di prevedere gli omicidi prima che questi avvengano grazie a tre veggenti chiamati Pre-Cog che vivono in una sospensione liquida. Le loro premonizioni vengono trasmesse a un sistema video che permette di rintracciare il tempo, il luogo e, soprattutto, i responsabili delle future uccisioni. Il reparto è comandato da John Anderton, un uomo che si è dedicato con grande impegno al suo lavoro dopo la sparizione del figlio, rapito e probabilmente ucciso sei anni prima da uno sconosciuto. Una delle visioni dei Pre-Cog rivela ai monitor un nuovo omicidio: l’autore dello stesso sarà proprio John che per evitare l’arresto decide di fuggire, quasi certo di essere vittima di una diabolica macchinazione. Tratto da un racconto di Philip K. Dick (tanto per capirci, l’autore che ha ispirato Blade Runner e Atto di forza), Minority Report sembra quasi essere una prosecuzione naturale di A.I. – Intelligenza artificiale; anzi, paradossalmente sembra addirittura più kubrickiano del precedente (che era ispirato, come è noto, da un soggetto firmato dall’autore di Eyes Wide Shut), sia per alcune soluzioni della messa in scena (si veda la sequenza con Peter Stormare nei panni di un chirurgo clandestino) che nell’approccio ad alcune tematiche di fondo (come il libero arbitrio, affrontato da Kubrick nel suo Arancia meccanica, esplicitamente citato da Spielberg nella stessa sequenza). Minority Report è il più impegnato dei film commerciali di Steven Spielberg (o il più commerciale dei suo film «impegnati»), un film di genere a tutti gli effetti, ricco di suspense e d’azione, ma altrettanto prodigo di spunti e riflessioni: sui pericoli e gli abusi della tecnologia, sulla presunta infallibilità della Giustizia, sulla fine completa di ogni privacy (i cittadini vengono controllati e riconosciuti tramite gli occhi, salutati da invitanti spot tridimensionali, proprio come gli internauti sono oggigiorno controllati tramite l’indirizzo IP navigando sul Web). Non manca, infine, l’elemento umano, la commozione, fondamentale in Spielberg, costituito dallo struggente dolore della perdita di un figlio, quasi un rovesciamento del tema portante di A.I., dove era invece il piccolo David, essere artificiale, a soffrire dell’assenza della madre. Il tutto filtrato attraverso la maestria tecnica del regista, capace ancora di stupire, ammaliare e girare numerosi pezzi di bravura: una per tutte, la sequenza, realizzata quasi completamente dall’alto, dei ragni elettronici partiti in uno stabile fatiscente alla caccia del protagonista. (andrea tagliacozzo)