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Malèna

Ancora un’incursione dolente e amara nei territori sfumati e sfuggenti della memoria per uno dei pochi autori italiani in grado di offrire garanzie spettacolari alle platee internazionali.
Malèna
di Giuseppe Tornatore, co-prodotto dagli americani della Miramax, è infatti un’operazione con chiare finalità commerciali, svolta con la maestria di un cineasta che sa di poter fare di più. E se è vero che una parte della critica italiana, che non ha mai digerito il successo strepitoso ottenuto con l’Oscar a
Nuovo Cinema Paradiso
, tiene verso Tornatore un atteggiamento pregiudizialmente negativo,
Maléna
non è certo il film in grado di ribaltare la situazione.

Come ai tempi de
L’uomo delle stelle
, realizzato con rapidità per lasciarsi alle spalle le critiche e l’insuccesso del capolavoro
Una pura formalità
, anche
Malèna
si presenta come una pausa più leggera dopo le ambizioni de
La leggenda del pianista sull’Oceano
. In verità il film è fin troppo leggero, e rischia di piacere solo a quel pubblico italiano di gusto medio-basso di cui Tornatore potrebbe tranquillamente fare a meno. Perché, se si guarda a questa parabola regressiva sull’educazione sentimentale di un ragazzino siciliano ai tempi della seconda guerra mondiale e degli ultimi scampoli di consenso fascista, non è possibile non accorgersi con rammarico di quanto il suo stile arioso e davvero degno di chance hollywoodiane si scontri con la mediocrità di un impianto pruriginoso da cinema di puro intrattenimento. La contraddizione di
Malèna
sta dunque tutta in una mancata corrispondenza tra le istanze d’autore, riconoscibili nella durezza sconsolata con la quale si rivolge al passato e nell’ironia cinefila con cui ogni episodio reale si stempera in una citazione da film italiani e americani in voga nel Ventennio (dai western ai pepla, dai melodrammi ai cinegiornali del Luce), e un racconto puntellato da sortite voyeuristiche che culminano in puntuali atti di autoerotismo.

Non è certo la volontà di Tornatore di volare deliberatamente basso a dispiacere, quanto piuttosto la sua evidente difficoltà nel coniugare l’eleganza viscontiana, leoniana (e talvolta anche felliniana, con palesi riferimenti ad
Amarcord
e a
Roma
), con la volgarità ostentata. Che Tornatore padroneggi poco e con imbarazzo le pratiche basse, lo dimostra persino la scelta della protagonista. Monica Bellucci, alla quale Tornatore ha l’intelligenza di far pronunciare pochissime battute (come Kubrick con Marisa Berenson in
Barry Lyndon
), rimane sempre troppo sofisticata, distaccata ed eterea – nelle movenze come nell’aspetto – per poter realmente aderire alle fantasie erotiche di un adolescente immaturo e di una comunità maschile arroventata dal desiderio, e giustificare altresì la brutale violenza di un manipolo di vendicative baccanti.
(anton giulio mancino)